Per fare pace col pallone
Io sono una fanatica delle olimpiadi.
Ogni quattro anni trascorro un mese di beatitudine sportiva appassionandomi alle gesta di ginnaste statunitensi, sollevatori di pesi uzbeki, squadre di nuoto sincronizzato russe, corridori giamaicani, e atleti di sport che neanche sapevo esistessero.
Per ragioni che immaginate, quest’anno mi sono particolarmente divertita ed emozionata, e come ogni volta mi sono dimenticata del calcio. Questo è il vero sport, mi dico, con le sue storie di coraggio e abnegazione, di fatica e sudore, di gloria e dolore, quello dove vince il più bravo: quello che salta più in alto, che corre più veloce, che fa un tuffo più simile alla perfezione. Basta, facile. E invece il calcio, con le sue beghe, gli arbitraggi assurdi, gli ingaggi miliardari mi sembra sempre più lontano dal vero spirito sportivo. E come sempre accade, quando inizia il campionato ci impiego sempre tempo a fare pace col pallone. Ci voleva, insomma, quest’anno ancora di più, qualcosa di importante per appassionarmi da capo.
Dovevo, per esempio, tornare allo stadio dopo un anno e mezzo di assenza. L’ultima volta che mi sono affacciata sul rettangolo verde si chiamava in un altro modo, per dire da quanto tempo non mettevo piede al San Paolo, ah no, Maradona. E ci voleva una partita esemplare. Tipo, contro la Juve.
L’impatto è stato inebriante. In un attimo mi sono riempita i polmoni dei profumi – sebbene coperti dalla mascherina – ubriacata con i rumori e i cori, immersa nella calda luce dorata del tardo pomeriggio che baciava gli spalti bianchi e azzurri. Ho guardato con simpatia gli altri tifosi, persino un signore con un terribile paio di bermuda rosa, che mi sono sembrati quasi belli. Nei primi quarantacinque secondi ho persino apprezzato le valutazioni tecniche di un piccolo opinionista di dieci anni seduto dietro di me (come tutti i frequentatori dello stadio sanno, gli opinionisti di dieci anni sono gli esseri più odiosi sulla terra). Un idillio.
I primi dieci minuti non hanno fatto che confermare questo stato di cose: il Napoli attaccava fiero, una pallonata dopo l’altra verso la rete difesa da Szczesny. Bene, vai così. Poi Manolas da par suo fa la cazzata, e Morata segna.
Il piccolo Fabio Caressa alle mie spalle ha iniziato ad alternare le sue raffinate analisi tecniche ad ancora più raffinate descrizioni di torture che avrebbe voltuo infliggere a Manolas, con l’aggiunta di un elenco dettagliatissimo di giocatori che avremmo potuto acquistare al posto suo. Lo odio. Odio il cuginetto che gli risponde a tono con una molestissima zeppola. Odio Manolas. Odio quel deficiente con i bermuda rosa.
Non può vincere la Juventus, non può vincere questa Juventus. Di fatto, il migliore della Juve finora è stato proprio Manolas. Non appena hanno segnato, i bianconeri si sono chiusi in un disperato catenaccio, roba che mano il Lumezzane contro il Real Madrid si sognerebbe di fare. Insomma, un minimo di dignità. Che diamine.
Fa rabbia perdere contro una squadra di disperati, una squadra inesistente, una banda di pellegrini, eppure il Napoli resta shockato dal gol e sembra paralizzato. Il primo tempo sembra un brutto sogno, e meno male che lo è per davvero. Il risveglio sono due gol, di Politano e Koulibaly. Un risveglio bellissimo, per una squadra non ancora al meglio, ma che già si vede. Un risveglio che serviva a tutti noi.
Per rimettere le cose a posto. Per fare pace col pallone.