Benvenuti nel Far Web: dove le corna e la corona di un bambino diventano un crimine d’opinione

C’è un virus che ha infettato le nostre bacheche da una settimana: un’epidemia di odio digitale, quella che trasforma ogni post in un tribunale, ogni foto in un crimine e ogni utente in giudice, giuria e boia.

Questa volta è toccato a Pedro Rodríguez Ledesma, ex gloria del Barcellona e attuale centrocampista della Lazio, reo di aver commesso un atto abominevole: aver festeggiato il compleanno del figlio di otto anni. Fin qui tutto normale, se non fosse che il bambino indossava una coroncina e un vestitino a quadri.

Apriti cielo. In poche ore la foto è diventata un rogo virtuale. Più di 5.000 commenti, molti dei quali grondanti odio, ignoranza e un sessismo da Medioevo. Una mandria digitale di “genitori modello” che, con la stessa mano con cui imboccano i figli, scrivono cose che nemmeno nei peggiori bar di Caracas. Tutto per un bambino che, con l’innocenza che manca agli adulti, giocava a essere ciò che voleva essere.

E no, non lo difendo perché Pedro a Napoli ce lo ricordiamo bene e grazie a lui abbiamo vinto uno scudetto. Lo difendo perché qui non c’entra il calcio: c’entra l’umanità, c’entra la decenza, c’entra il buonsenso (Grande Pedro e non perché sei un campione a calcio)

Sempre sul versante “Far Web”, questa settimana si è messo pure l’affaire Byron.

Andy Byron, fino a pochi giorni fa CEO della startup americana Astronomer, è finito sotto la luce dei riflettori per un’altra imperdonabile leggerezza: essere stato inquadrato dalla “kiss cam” con una donna che non era sua moglie.

Un’esplosione mediatica talmente violenta che Byron ha finito per dimettersi. Più di 22.000 articoli in 24 ore, 9.000 solo su di lui e sulla “commara” (consiglio non richiesto per gli infedeli: se proprio dovete tradire, non portate l’amante a un concerto sold out. È la regola base per il fedifrago perfetto).

Due storie diverse, un unico grande dramma: la degenerazione dei social network, diventati la cloaca in cui si riversano frustrazioni, pregiudizi e moralismi da salotto buono.

Ormai basta un click per distruggere una carriera o l’infanzia di un bambino. Basta uno screenshot per trasformare un momento privato in una gogna pubblica. Un video su Youtube per diffamare chiunque.

E il problema non sono solo i contenuti: sono le persone.

È l’idea distorta che Internet sia una zona franca, una terra di nessuno, fuori dalla giurisdizione di ogni legge, educazione e umanità. Qui tutto è permesso: spiare, insultare, denigrare, accusare, diffondere. D’altronde, se non lo fai tu, lo farà qualcun altro – e prenderà più like.

Parliamo mille volte di privacy, hate speech, cyberbullismo, revenge porn. Ma nulla cambia. Ogni volta che il dibattito torna a galla, è solo per affondare subito dopo, sotto nuove ondate di indignazione fasulla e like compulsivi.

È tempo di leggi, è tempo di educazione, è tempo di responsabilità.

Non basta più “educare ai social”: è tempo di educare alla cittadinanza digitale, alla consapevolezza che ogni parola online ha un peso, ogni commento può ferire, ogni meme può rovinare vite, ogni video pubblicato ha un diritto alla privacy da garantire. Non possiamo più permetterci di scrollare le bacheche e “vabbè, che sarà mai!”.

Serve che i legislatori aprano gli occhi.

Serve che le scuole, le aziende, le famiglie, i media – tutti – capiscano che non si può più vivere in un mondo dove un padre viene insultato perché lascia suo figlio essere libero, e una famiglia si sfascia solo perché una telecamera ha deciso di mandare un abbraccio in mondovisione.

Serve una rete più civile, meno mandria e più coscienza. Perché il web non è il Far West, e la libertà di espressione non è la libertà di distruggere.

Non ci si può nemmeno più mettere una coroncina in santa pace o sbagliare posto al concerto, che il web ti sbrana.

E se questo non vi fa paura, allora è il segnale che siamo già tutti perduti.

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