Morire sul lavoro deve far rumore
Di Sergio D’Angelo
Si parla ogni giorno di morti sul lavoro perché è una tragedia che scandisce macabramente la nostra quotidianità con una media di circa tre decessi al giorno, ma in realtà è come se non se ne parlasse mai. A meno che non siano vicende eclatanti, come quella della appena 21enne Luana D’Orazio, giovane mamma e operaia morta in una fabbrica di Prato giusto un anno fa, le notizie sono racchiuse in articoli di poche battute. Spesso, neanche il nome. Talvolta le iniziali, una data, un luogo, pochi e generici dettagli per un pezzo in taglio basso. Una colonnina in grassetto se tutto va bene. Come se morire sul lavoro fosse una morte per cause naturali.
Bisognerebbe invece raccontarle, le loro storie, come quello di Oronzo che aveva 53 anni ed è morto cadendo a Salve, in provincia di Lecce, da un’impalcatura di sei metri. Il cantiere era a norma e rispettava le misure di sicurezza? Oronzo indossava imbragatura, casco, protezioni? Storie come quella di Yaya Yafa, un ragazzo di appena 22 anni della Guinea Bissau, schiacciato mortalmente da un tir all’Interporto di Bologna al suo terzo giorno da facchino. Si poteva evitare che non tornassero più a casa? Raccontare storie facendosi domande diventa quindi essenziale, perché sono le domande di oggi che possono impedire gli incidenti mortali di domani.
Il presidente Mattarella ne ha parlato il 1° maggio, indicando come obiettivo “zero morti”, ma perché questo cominci a essere possibile almeno per approssimazione c’è bisogno di maggiori risorse per assumere ispettori del lavoro, bisogna attivare osservatori regionali sulla sicurezza non solo in funzione di una maggiore vigilanza, ma anche di orientamento sulla prevenzione. Senza dimenticare che i numeri si riferiscono solo a quella parte del fenomeno che emerge, nella consapevolezza che sotto la superficie le dimensioni sono ben più ampie e drammatiche. Senza dimenticare gli infortuni talvolta gravissimi che lasciano conseguenze irrimediabili.
Costa controllare e prevenire? Certo costa, ammesso che la vita umana possa essere misurata col valore del denaro, ma anche accettando questa logica che non è la mia è stato lo stesso presidente Mattarella a ricordare sempre nell’intervento del 1° maggio che ogni incidente ha un costo: umano, morale, sociale, economico che è superiore a quello della prevenzione e della sicurezza sui luoghi di lavoro. È un ragionamento che sento profondamente vicino alla mia sensibilità perché è applicabile più in generale alle politiche sociali. Ci costa meno anche economicamente salvare vite umane e la coesione sociale della nostra stessa comunità, invece che fare i conti con le conseguenze.