Sabato, 16 Novembre 2024

Napoli, fra continuità e cambiamento… lento

di Sergio D’Angelo

Mi capita sotto gli occhi una fotografia dei primi anni Novanta e più che la nostalgia del mio passato mi ritrovo a chiedermi quanto sia cambiata Napoli in questo trentennio. Poi, stamattina, leggo le dichiarazioni rese dal governatore di Banca d’Italia Ignazio Visco durante la presentazione del report “Il divario Nord-Sud: sviluppo economico e intervento pubblico”. Ce n’è una in particolare che mi colpisce e si ricollega alle mie riflessioni sul cambiamento. È quella in cui afferma: «Niente di nuovo sotto il sole: scriviamo le identiche parole perlomeno da trent’anni».

Napoli infatti non è cambiata granché negli ultimi trent’anni e non potrebbe essere altrimenti per una serie concomitante di ragioni. Innanzitutto, è l’Italia a essere un paese dove il cambiamento è al netto di qualche eccezione estremamente lento. Poi Napoli è la metropoli per eccellenza del sud e quindi non può essere immune alle criticità del territorio che hanno motivazioni complesse sul piano storico. Poi, c’è una certa resistenza al cambiamento che Lello Arena interpreta magistralmente in chiave ironica nel film No grazie il caffè mi rende nervoso, mentre sceglie una posizione più drastica la Ferrante con il cambiamento sempre promesso e mai realizzato, che determina la fuga dalla città.

Io penso invece che Napoli cambi, ma lo faccia troppo lentamente e a scatti, con ondate che producono effetti limitati nel tempo senza riuscire a determinare un movimento perpetuo e virtuoso. Fu una stagione di cambiamento, per esempio, quella del cosiddetto Rinascimento napoletano, ma lo fu in virtù di un movimento congiunto fra le ambizioni della politica e un risveglio spontaneo dal basso un decennio dopo il terremoto. Chi come me si ricorda gli anni Ottanta, il centro storico invaso dalle impalcature di tubi innocenti e svuotato di relazioni, il deserto al calar del sole e le piazze trasformate in grandi parcheggi, non può che convenire sul risveglio di circa trent’anni fa. Durò poco però, restò allusione, riuscendo sia pure in forma embrionale a riportare il centro storico alla sua centralità.

Si legge spesso che a impedire il cambiamento sia un presunto partito del no, identificandolo con l’ecologismo di sinistra. È una tesi che fa sorridere rispetto alla sproporzione delle forze in campo, perché ipotizza che una piccola minoranza sia addirittura in grado di opporsi ai processi di trasformazione. La prima obiezione è che non si vede in giro nessuna grande idea che rifletta una visione della città, fosse pure di segno opposto. E poi sono invece convinto che il freno al cambiamento vada ricercato più attentamente fra la Napoli dei potenti, delle decisioni politiche, di chi ha maggiori risorse economiche. Per chiedersi poi se si tratti di un’avversione ideologica, della volontà di non intaccare rendite di posizione, oppure della considerazione economica che la lentezza produce un maggiore ricavo economico, quando per esempio riguarda il denaro pubblico e il costo delle opere va alle stelle.

Io invece sono a favore del cambiamento, interpretandolo come il miglioramento delle condizioni di vita dei napoletani, soprattutto di quelli che hanno maggiore bisogno, ma avendo il coraggio di analizzare con brutale sincerità cosa deve cambiare perché si creino le condizioni perché questo avvenga. Nell’immediato e nello specifico, spendere bene i fondi del Pnrr, perché se non riduciamo il distacco dall’altra Italia ogni ambizione si fa inevitabilmente velleità.

Author: Redazione

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