Una confusa percezione della legalità e il futuro dei giovani di cui ci dobbiamo occupare
I cattivi sono più famosi dei buoni, questo è il risultato dell’interessante questionario per la legalità che Il Mattino sta sottoponendo in 31 scuole del napoletano, per un totale di circa diecimila studenti.
Una serie di domande che, tra le altre cose, mettono a confronto dodici personaggi reali e di fantasia di segno opposto: carnefici e vittime. È un questionario con risposte anonime che svela in maniera anche contraddittoria la consapevolezza, la percezione, le aspettative dei giovani rispetto alla legalità e ai fenomeni criminali. Uno spaccato generazionale in cui si riflettono da un lato il territorio, soprattutto quello più critico, e dall’altro la capacità di raccontare dei media, soprattutto della televisione e dei social network.
Non sorprendentemente quindi, il più famoso con il 42,3% è il boss per antonomasia della serie Gomorra Pietro Savastano, seguito con il 39% da Ciro Di Marzio, l’immortale. Indicativo anche il 37,5% di Raffaele Cutolo, scomparso a febbraio dello scorso anno e in carcere prima della morte addirittura dal 1979, che però con ogni probabilità va attribuito alla perdurante popolarità del film Il camorrista.
Confortano comunque il 40% di Giancarlo Siani e il 33,7% di Don Peppe Diana, anche se rattrista la scarsa conoscenza di due vittime giovanissime, come la 14enne Annalisa Durante uccisa a Forcella da un proiettile vagante in un conflitto a fuoco, e la 22enne Gelsomina Verde barbaramente trucidata nell’ambito della prima faida di Scampia. Solo il 4% dei ragazzi intervistati ha dichiarato di sapere chi fosse. Anche don Maurizio Patriciello che vive sotto scorta non gode di grande popolarità: lo conosce appena uno studente su dieci.
La metà dei giovani ritiene che di camorra si parli troppo poco a scuola, il 70% vorrebbe essere coinvolto più attivamente nella lotta al fenomeno, ma al tempo stesso uno studente su tre ritiene che un boss meriti comunque rispetto. In questo caso, sulla media, pesa inevitabilmente il territorio, soprattutto nelle aree dove la percentuale arriva oltre il 40%, dove più massiccia è la presenza di organizzazioni criminali e maggiore la contiguità fra queste e la criminalità giovanile. Dove si formano più frequentemente le baby gang, che per oltre il 50% degli studenti nascono per l’esigenza di fare gruppo, sentirsi forti, invincibili.
Se la forma di collettività più “naturale” (fra molte virgolette) appare la gang, diventa chiaro per contrasto quanta desolidarizzazione, quanto degrado, quanta violenza, abbiamo permesso che si diffondessero in un’ampia parte della città e dell’ex provincia. È un discorso che mediamente non piace alla politica, perché oggi il consenso si ottiene più facilmente con la richiesta di maggiore repressione e pugno di ferro, che restano poi sulla carta perché semplicemente inattuabili, utili al massimo per le campagne elettorali, al netto delle ovvie e necessarie forme di contrasto che vanno inevitabilmente messe in campo.
La confusa tenerezza con la quale dei ragazzi poco più che bambini vogliono essere più protagonisti nella lotta contro la camorra, ma a maggioranza ritengono l’omertà un valore, svela invece brutalmente una realtà che da operatore sociale conosco da decenni. Un contesto che necessita di grandi risorse, ma comunque inferiori a quello che poi costa la criminalità, personale formato in grado di fare fronte al deficit valoriale, e poi delle prospettive. Sì, perché se anche domattina ci svegliassimo e per miracolo ci ritrovassimo di fronte una generazione virtuosa, cosa avremmo da offrirgli in certi territori al termine degli studi? Emigrazione? Lavoro nero sottopagato? La giungla dei contratti precari senza futuro? Il futuro dei giovani è invece una cosa seria, dovremmo cominciare a occuparcene, anche se non votano.