Il carcere è lo specchio della società: dobbiamo prendercene cura
Sovraffollamento, aumento di suicidi e atti di autolesionismo, incapacità di dare risposte soprattutto ai detenuti più fragili come migranti, persone con problemi di dipendenza o salute mentale: sono solo alcuni dei nodi problematici che emergono dall’ultima relazione sulle carceri campane diffuse dal Garante della Regione Campania delle persone sottoposte a misure delle libertà personali. Addirittura, il primato di suicidi dall’inizio dell’anno spetta alla Campania, con il carcere di Poggioreale, in cui oltre a 3 suicidi, ci sono registrati 2 casi di morti da accertare.
A ben guardare, il carcere è un'emergenza sociale che rispecchia tutte le altre emergenze legate all’attuale momento storico e al contesto socio economico delle nostre città e, in particolare, dei territori fragili, Mezzogiorno in testa. In questo senso, gli istituti di pena sono la fotografia del disagio e delle difficili condizioni di convivenza del nostro tempo, con un carico ancora più pesante per le fasce più deboli che fanno fatica a sopravvivere.
Il quadro è quello delle nostre periferie, lì dove non tutti sono riusciti a stare al passo con la crescita economica del Paese, lo Stato è poco attento quando non completamente assente, e il vuoto è stato colmato dalla presenza della criminalità organizzata che ha fatto proseliti soprattutto tra i giovanissimi. Il quadro è quello di una città, Napoli, in cui è la delinquenza minorile ha avuto una costante escalation, senza che a ciò venissero date risposte capaci di agire sulla prevenzione prima ancora che sulla cosiddetta presa in carico del minore e della famiglia. Il quadro è quello caratterizzato dalla insufficienza di politiche sociali e di sostegno al reddito in grado di intervenire sulle situazioni familiari più complicate, nelle quali la povertà diventa una sorta di carattere ereditario che passa da padre in figlio, perché contesti poveri e al limite della legalità finiscono per generare ulteriore marginalità.
Ebbene, il carcere riflette tutto questo in una situazione per sue caratteristiche reclusiva, all’interno di un ambiente ovviamente chiuso in cui le difficoltà e le fragilità umane non possono che amplificarsi. Per queste ragioni, diventa ancora più importante ripensare ai penitenziari non solo come a luoghi destinati alla espiazione della pena ma soprattutto alla riabilitazione. Come contesti sociali in cui si può provare a avviare concreti interventi con le persone e lavorare sulle opportunità di inclusione sociale delle persone che sono dentro, affinché, una volta fuori, possano intraprendere strade autonome con prospettive di vita, lontane dal malaffare.
In quest’ottica, si inquadrano progetti socio-riabilitativi come IV Piano, attivo da circa 9 anni all’interno della Casa Circondariale di Poggioreale, che affronta il tema delle dipendenze. L’intervento, promosso dal Dipartimento Dipendenze della Asl Napoli 1 Centro - in stretta integrazione con la Direzione di Poggioreale - insieme al gruppo di imprese sociali Gesco attraverso la cooperativa sociale Era, realizza nel carcere napoletano opportunità di socializzazione e uno sportello per l’implementazione di misure alternative rivolte alle persone con dipendenze del territorio della Asl Napoli 1 Centro, creando occasioni concrete di inclusione sociale e riempiendo la vita troppo vuota dei detenuti.
Un altro esempio di buona pratica in cui si lavora sulle abilità dei reclusi per facilitare il loro reinserimento sociale e lavorativo, è rappresentato dal progetto della pizzeria Brigata Caterina, promosso dalla Casa Circondariale “Giuseppe Salvia” Poggioreale e realizzato da Gesco in ATI con APL lavoro, che ha permesso l’attivazione di un percorso di formazione e accompagnamento all’inserimento lavorativo per 20 detenuti che sono diventati pizzaioli. Allo stesso tempo, ha dato l’opportunità ad alcuni di loro di essere assunti nel laboratorio di pizzeria all’interno dell’istituto Salvia, che oggi sforna ottime pizze per tutta la popolazione carceraria.
Si tratta di due casi esemplari in cui la cooperazione sociale, lavorando in integrazione con il pubblico, ha un ruolo determinante e prezioso nel creare le premesse perché queste persone abbiano una seconda chance e possano tornare a credere in se stesse, una volta uscite di prigione. Ma non basta, il terzo settore potrebbe continuare a prendersene cura, sostenendone i percorsi di inserimento lavorativo come quelli familiari, rappresentando anche un ponte con le imprese da coinvolgere in percorsi virtuosi e di sostegno all'emancipazione, seguendone insomma il cosiddetto follow-up.
Si tratta di un’enorme risorsa, il cui ruolo va nuovamente valorizzato, in un'ottica di ridefinizione di un patto strategico che punti ad allargare e rafforzare l'efficacia della funzione pubblica dei servizi e l'integrazione con le esperienze sociali.