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Un gruppo di associazioni di donne – a partire dall’UDI di Napoli DonneInQuota – ha firmato una lettera aperta indirizzata ai ministri e al Parlamento sulla violenza di genere, al fine di chiedere che siano applicate leggi che già esistono nonché sollecitare un’iniziativa di governo per intervenire in maniera efficace contro violenze sulle donne e femminicidi.
«A partire dalla CEDAW, approvata nel 1979, le maggiori convenzioni internazionali per l’eliminazione della violenza degli uomini sulle donne, recepite dai governi italiani, indicano le azioni imprescindibili e necessarie per la realizzazione dell’obiettivo.
Ciò nonostante, è paradossale che il governo in carica, con un’accelerazione inedita, abbia adottato misure economiche e politiche del tutto indifferenti a quelle indicazioni e abbia operato in modo attivo per contrastare le poche ma importanti norme a sostegno delle donne, cioè quelle in previsione della liberazione dalla dipendenza economica e sociale. Abolita opzione donna, inesistente il reddito di libertà, nessun sostegno alla maternità.
La parola maternità è stata progressivamente sostituita da “natalità”, il che significa che l’attenzione è spostata dal materno alla produttività dei corpi femminili.
L’inasprimento delle azioni criminali contro le donne, soprattutto per efferatezza e presunzione di impunità, è conseguente all’assenza di salvaguardie alla libertà femminile: i sindaci e i dicasteri deputati hanno favorito, con la mercificazione spinta degli spazi fisici, la totale assenza di quegli elementi che costituiscono la “città a misura di donne e bambini”.
Proprio per quanto sopra indicato, colpisce che proprio i responsabili dell’inerzia nel contrasto alle violenze propongano ora soluzioni di futura e incerta applicazione. Si parla solo di formazione delle giovani generazioni mentre si riducono le offerte educative e si ignorano le vittime all’interno delle realtà educative, spesso allontanate dal loro contesto, mentre i responsabili di molestie e stupri restano.
Sappiamo e sanno i politici che queste modalità riproducono invariata incidenza statistica dei casi di violenza fino al femminicidio.
Nei primi due quadrimestri del 2023 sono circa 300 le donne che hanno subito e denunciato reati maschili: tra stupri, aggressioni e tentate uccisioni.
Non è una nuova emergenza, è l’evidenza delle vicende che le donne e le ragazze hanno creduto di poter esporre per salvaguardarsi, rassicurate da un complesso di messaggi resi pubblici anche dalle istituzioni.
Non è cambiato il rapporto di potere tra donne e uomini e allo scadere consuntivi annuali, che riguardano le uccisioni di donne da parte di uomini, è l’evidenza che suggerisce, vista la percentuale di femminicidio costante e invariata in relazione alla mortalità femminile, l’insopprimibile e quindi fatale rischio di morte violenta insito nell’essere donna.
Da decenni, denunce e statistiche si traducono per la pubblicistica e la politica in nuovi avvertimenti che impongono limiti comportamentali alle cittadine, e solo a loro, in quanto l’altra metà della popolazione sarebbe caratterizzata da una struttura pericolosa e incoercibile.
Questo dato fattuale è purtroppo entrato nel sistema giudiziario, che sia o no impersonato da uomini, che nelle sentenze, e prima ancora nello svolgimento delle udienze, confermano che, per quanto sia odioso e vergognoso il crimine subito dalla vittima, è proprio questa a non veder riconosciuta la sua ragione e a patire le persecuzioni per aver infranto le regole. Altro invece succede al colpevole, presunto o riconosciuto tale: al pronunciamento, può prendere la veste di chi ha pagato e godere degli sconti di pena, regimi attenuati di detenzione, nonché scarcerazioni preventive.
La lungaggine dei processi, per i colpevoli o presunti tali, favorisce la ricerca di nuove testimonianze che, per quanto inattendibili per la loro distanza dai fatti avvenuti, vengono ammesse nella metà dei casi di stupro.
La legge pone certamente dei limiti, ma la sua disapplicazione non presenta alcuna conseguenza per i giudici che progressivamente sembrano meglio predisposti all’affermazione di un ordine che vede il predominio maschile, che non all’applicazione del principio del rendere giustizia alle vittime, indipendentemente dal sesso, dall’appartenenza sociale, religiosa ed etnica.
Le conseguenze delle decisioni dei magistrati si traducono in danni, per le vittime innanzi tutto, dal punto di vista culturale e sociale.
Le reiterazioni di femminicidio su altre vittime, commesse da responsabili con pene ridotte, condonate o alternative, sono storiche e attuali.
Le reiterazioni di stupri e maltrattamenti, anche quando con lesioni gravissime, commesse da uomini agli arresti domiciliari, o scarcerati per attenuanti e buona condotta, sono altrettanto storiche e attuali.
Alla base della disapplicazione delle norme a tutela delle donne, sostituendole con una sorta di senso comune, c’è la propensione di molti giudici a considerare la potenzialità violenta di alcuni uomini alla stregua di un presupposto nei rapporti sociali, un dato attorno al quale organizzare la gestione familiare ancora prima che sociale. Quello a cui si arriva è una vera propria direzione politica del processo, anche in sede civile, per esempio e soprattutto nelle cause per l’affidamento dei minori, dove “l’imprescindibile autorità paterna” viene imposta anche quando accertati reati contro le persone imporrebbero la scelta dell’affidamento materno. Le cronache anche qui raccontano di danni causati dalle sentenze, che non è improprio definire ideologiche, alle donne e ai minori.
Di fronte a questo è importante chiedersi se gli automatismi delle carriere in magistratura non siano una vera e propria assicurazione per uomini che sono oggettivamente responsabili della ripetizione di crimini che in queste condizioni scrivono la storia del nostro tempo. Né i fatti eclatanti né il ripetersi di vere e proprie tragedie nelle quali soccombono le donne e i loro figli hanno sollecitato i politici a riesaminare i criteri di assegnazione delle competenze nei processi per femminicidio, violenze maschili, affidamento dei minori.
La presenza delle donne immigrate, con i loro bagaglio di violenze pregresse e quelle dovute all’incontro con un contesto pronto a sfruttarle dal punto di vista lavorativo e sessuale, ha svelato l’assoluta incapacità di applicare le norme internazionali, sia nelle strutture dell’accoglienza, sia nel tessuto giudiziario. Si è più volte verificata l’assoluzione di aggressori sessuali, perché le donne che pure avevano denunciato (secondo precise norme del TULPS) non sono state considerate alla luce del reato di “riduzione in schiavitù”.
Nelle classi dirigenti del paese è ancora radicato un pensiero che riconosce agli uomini il diritto di fare sesso e che fattualmente considera la prostituzione un servizio necessario, nascosti dietro il paravento della libera scelta e del tacito consenso.
Gli anni duemila sono stati caratterizzati dall’attivismo femminista per l’eliminazione della violenza maschile, che ha spinto all’adozione di sempre nuove strategie e tecniche mirate alla salvaguardia femminile. Uguali spinte, come si vede, si sono attivate da parte di un conservatorismo che, esplicitamente, ha indicato nella Convenzione di Istanbul un elemento di destabilizzazione delle società e delle famiglie, assumendo quindi il principio dell’indispensabilità della violenza nel garantire l’ordine familiare e sociale.
La spinta al mantenimento dei presupposti della violenza è stata ben interpretata dai media, intesi non solo in campo giornalistico, collegati ai poteri politici che hanno disegnato profili di vittime imprudenti, se non ricattatrici, responsabili di aver provocato desideri o vendette.
L’esigenza istituzionale, dettata dalla cronaca, di pronunciarsi su fatti che colpiscono anche l’elettorato di riferimento si è tradotta nelle ultime settimane in irragionevoli e inefficaci richiami moralistici verso le donne. Richiami poco competenti per di più se si considera che solo una minima percentuale di stupri avvengono in coincidenza di consumo di droghe e alcol da parte della vittima, a meno che non somministravate anche essi in modo violento. La maggior parte degli stupri non avvengono in strada o all’uscita dalle discoteche. Avvengono nell’ambito delle parentele e dei luoghi di lavoro, dove spesso le denunce delle donne sono ignorate.
Le donne in Italia presuppongono di essere libere di lavorare, divertirsi e vestirsi secondo le proprie scelte: è proprio questo che non viene tollerato, ma contraddittoriamente poi rivendicato come livello democratico in contrapposizione ai paesi considerati “incivili”.
Nulla di fatto in Italia per contrastare il femminicidio e le altre forme di violenza, né si vede una prospettiva di investimento in controtendenza del denaro pubblico, per definizione prodotto e risparmiato dalle donne.
Le convenzioni internazionali devono essere applicate in Italia, ma fino ad ora non si sono adottati dispositivi di legge e non sono intervenute decretazioni applicative da parte dei ministeri competenti, tanto che fino a due anni fa in molti uffici dei magistrati mancavano anche ii testo della convenzione di Istanbul, per esempio come abbiamo riscontrato nel tribunale di Napoli.
Chiediamo quindi il rispetto delle convenzioni internazionali e delle leggi che vediamo inapplicate da magistrati più propensi a rispettare le proprie convinzioni che non il principio del ristoro della vittima. Sollecitiamo infine un’iniziativa del governo e del parlamento per intervenire su un vero e proprio vulnus democratico e ci rendiamo disponibili ad un incontro presso i ministeri competenti e la commissione femminicidio».
UDI di Napoli, DonneInQuota
Aderiscono:
Associazione Salute Donna
Arcidonna
Psy-com Protocollo Napoli
Donne Insieme
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