Venere degli stracci, una prospettiva diversa
La richiesta di revoca è stata rigettata e perciò Simone Isaia resta agli arresti domiciliari in seguito alla durissima condanna a 4 anni di reclusione in primo grado per il rogo che ha distrutto la Venere degli stracci. Sentenza che se confermata nei successivi gradi di giudizio gli riaprirebbe le porte del carcere.
Simone continua a negare di aver appiccato il fuoco. Condannato su base indiziaria per un video che lo riprende nei pressi dell’installazione, ma non mentre compie l’ipotetico gesto. La sua legale ha evidenziato che all'interno dell’opera, che avrebbe dovuto essere ignifuga, i vigili del fuoco hanno ritrovato una latta di vernice e un’altra di solvente.
Insomma, permane più di qualche dubbio, ma io non faccio il giudice e non inquadro la questione in una cornice esclusivamente giudiziaria. Penso piuttosto che Simone sia prima di ogni altra cosa una persona che ha bisogno di aiuto.
Ricordo l’aspra amarezza che provai nelle ore successive al rogo, di fronte ai contenuti che pubblicava su Facebook e dai quali emergeva il ritratto di un uomo confuso. Decine di post dalla logica astrusa e criptica senza nessun commento o interazione in risposta che rivelavano una profonda condizione di sofferenza e di disagio. Un deserto di solitudine. Simone era un uomo che parlava da solo perché non aveva più nessuno con cui parlare.
È questa consapevolezza, che evidentemente non sono l’unico a provare, che sta alla base dell’ampia mobilitazione da parte della società civile, degli artisti, del mondo dell’associazionismo laico e religioso, a sostegno di Simone. Una mobilitazione che però al momento non ha sortito alcun effetto, nemmeno la revoca degli arresti domiciliari.
Un passaggio chiave della sentenza definisce il rogo “Un grave pregiudizio arrecato allo sviluppo culturale ed artistico della città, nonché all’immagine della stessa”. Ecco, io faccio fatica a comprendere proprio questo punto.
L’opera di Pistoletto era un’installazione, una copia di altre custodite altrove, una anche a Napoli. Come ha scritto qualcuno più titolato di me in storia dell’arte non siamo di fronte alla distruzione di un’opera unica come per esempio la Gioconda, o all’abbattimento delle torri del Maschio angioino.
È arte che si fa sociale, si espone nuda al mondo e alle sue contraddizioni proprio per svelarle, rappresentandole. Quasi trent’anni fa lo scultore napoletano Mimmo Palladino scelse volontariamente di dare fuoco alla sua montagna di sale che fu il primo simbolo di una piazza Plebiscito restituita alla collettività.
È un gesto sul quale forse dovremmo riflettere, potrebbe svelarci una prospettiva nuova e diversa sul rogo della Venere degli stracci.