Sabato, 21 Dicembre 2024

Basaglia ha ancora molto da dire!

Quest’anno si ricordano i 100 anni dalla nascita di Franco Basaglia (Venezia, 11 marzo 1924).

Nel 1972 Basaglia scrisse un’accorata lettera al Presidente della Provincia di Trieste, insieme agli internati del manicomio che allora dirigeva, per chiedere di salvare il cavallo da soma della struttura, che poi divenne il simbolo (Marco Cavallo) della liberazione dei malati psichiatrici dagli stigmi e dall’esclusione sociale. Con quello stesso slancio accorato, scrivo oggi a Lei, insieme agli operatori e alle operatrici sociali impegnati a continuare oggi l’opera basagliana.

Ricordare Franco Basaglia significa ricordare l’uomo la cui attività di osservazione, studio, ricerca, ha contribuito alla fine dei manicomi e a un nuovo approccio alla cura della malattia mentale che coinvolga la comunità nella sua interezza, avviando così quella che fu poi definita la “deistituzionalizzazione”.

Dalla sua capacità di analisi prese le mosse, quarantasei anni fa, la Legge 180, comunemente detta Legge Basaglia, che entrò in vigore il 13 maggio del 1978, ricordata come la legge che ha, appunto, “chiuso i manicomi”. Ma fu molto di più! L’approvazione della Legge 180 è stato il punto di arrivo di un lungo cammino iniziato da Franco Basaglia nel 1961, nell’ospedale psichiatrico di Gorizia.

Negli anni Sessanta era ancora in vigore la legge del 1904 applicando la quale venivano internate le persone “affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose”. In quegli anni l’internamento negli ospedali psichiatrici era una punizione piuttosto che una cura, le persone erano recluse anziché ricoverate, il disagio psichico era una colpa da nascondere più che un normale malattia.

Sino al 1978, il sofferente psichico non era un cittadino, era privato di qualsiasi diritto. Per queste persone la Costituzione non era validata, gli internati non avevano voce rispetto alle cure e non potevano decidere nulla della loro vita.

La legge 180 restituisce libertà, diritti e dignità ai malati di mente, li riconosce come cittadini e come tali gli riconosce il diritto alla casa, il diritto al lavoro, il diritto alla salute, il diritto ad avere una famiglia e degli affetti. La riforma della psichiatria inizia negli ospedali psichiatrici, ma dispiega i sui effetti nella società, generando innovazione anche sul fronte imprenditoriale. Dalla chiusura dei manicomi sono infatti nate le prime cooperative sociali ante litteram, imprese che non perseguono la massimizzazione del profitto, ma l’interesse generale della comunità.

La cooperazione sociale, nata grazie al lavoro di gruppi spontanei di cittadini, è stata la formalizzazione di un impegno civile che ha saputo strutturarsi e, attraverso la forma cooperativa, ha sottratto la solidarietà al caso e all’approssimazione. In questo percorso, le cooperative sociali sono state lo strumento per ricomporre aspetti apparentemente inconciliabili, l’impresa e la solidarietà, dando vita ad organizzazioni legate alle comunità in cui cooperavano lavoratori, volontari ed utenti per svolgere insieme attività d’impresa non per il profitto ma per perseguire il benessere generale.

A più di quarant’anni dalla nascita delle prime cooperative sociali, questa forma di impresa che tiene insieme solidarietà e mutualità, ha fatto registrare una progressiva e costante crescita, anche negli anni della grande recessione.  

Un movimento che ha avuto anche una forte dimensione politica, sintetizzata nella battaglia combattuta da migliaia di uomini e donne per dare diritti a chi diritti non ne aveva. Una battaglia che ha coinvolto intere comunità, non solo medici ma anche giovani, che entravano come volontari negli ospedali, artisti, che realizzavano istallazioni e organizzavano laboratori nei padiglioni manicomiali, giornalisti e scrittori, che narravano i processi di deistituzionalizzazione, sindacati e partiti politici, che accompagnavano le fasi più cruciali della riforma, nuovi imprenditori che creavano imprese sociali per rendere esigibili diritti.

A quarantasei anni dall’approvazione della legge 180 è necessario recuperare la dimensione politica, la forza di trasformazione e cambiamento della società che hanno caratterizzato quegli anni. È ora necessario costruire nuove alleanze per garantire diritti che non devono darsi mai per scontati. È necessario impegnarsi per l’accoglienza dei migranti, per il contrasto delle diseguaglianze e delle povertà.

In un momento in cui, ancora una volta, le istituzioni pubbliche riescono con fatica a soddisfare direttamente nuove e vecchie domande di servizi e prestazioni, il terzo settore rappresenta ancora un esempio di razionalità – o ragionevolezza- collettiva, collocando i problemi di efficacia e di efficienza nell'ambito di un contesto più ampio, mirando ad una più equa distribuzione della ricchezza e dei diritti sociali. Per questo il terzo settore svolge un ruolo essenzialmente politico, in quanto contribuisce attivamente alla crescita della democrazia sociale, contribuendo in maniera determinante alla “deistituzionalizzazione” del disagio.

Tutto ciò è avvenuto anche a Napoli, dove l’istituzione di servizi territoriali si è sviluppata anche sulla spinta di collaborazioni sperimentali con la cooperazione sociale.

Da allora il ruolo della cooperazione sociale è stato di grande supporto alla dirigenza pubblica, sia per la progettazione che per la realizzazione di interventi nella Salute Mentale, nei percorsi di presa in carico e assistenza delle persone dipendenti da sostanze, nei servizi agli anziani affetti da patologie invalidanti quali demenza ed Alzheimer.

In questi anni il lavoro sociale nei servizi sanitari ha assunto sempre più una valenza specifica che si è concretizzata attraverso interventi puri, reali e calati nella società civile, quanto più possibile collegati al territorio di riferimento, ma anche alla città tutta, intesa essa stessa come patrimonio e luogo di intervento. Lavorare fuori per lavorare dentro, con le persone, lavorare per sostenere le persone a cambiare senza negare la sofferenza della malattia, ma imparando a convivere con essa, a riconoscerla.

Crediamo sia ora il momento di riscrivere un nuovo patto sociale per rilanciare politiche pubbliche a sostegno delle persone fragili e delle comunità, in una sinergia mutualistica con il lavoro sociale. Interventi che possono realizzarsi in forme molteplici, rafforzando i servizi territoriali, mantenendo il ruolo della cooperazione sociale per quelle attività che difficilmente potranno essere realizzate con flessibilità ed esperienza, sostenendo e facilitando l’accreditamento di Centri Diurni Polifunzionali (previsti già dalla normativa regionale) realizzati dalla cooperazione sociale.

Come diceva Basaglia…

Si può fare!

Lettera firmata dal direttore di Gesco Giacomo Smarrazzo con gli operatori di Gesco Laura Marmorale e Bruno Romano

Author: Redazione

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