Perfect Days, uno stato di coscienza
Perfect Days di Wim Wenders.
Molto di più di un film.
Il nuovo film del regista tedesco è una rivelazione.
Difficile trovare oggi nel frastuono di mille voci, nel rumore dei linguaggi codificati, qualcosa che assomigli a un altro tipo di linguaggio dimenticato.
Parlo del simbolo e dell’immagine attraverso cui si trasmette una conoscenza.
Un tempo il linguaggio simbolico era qualcosa di conosciuto, attraverso il simbolo visivo si andava oltre la dualità, e l’immagine primordiale parlava a uno stato di coscienza “altro” che spesso veniva “risvegliato” dal rappresentato simbolico.
Poi vennero i tempi della tradizione orale e allora era il suono a trasmettere la conoscenza, la voce con cui si narrava ciò che restava del simbolo era affidata a qualcuno che quella conoscenza l’aveva in qualche modo esperita e poteva trasmetterla.
Alla tradizione orale subentrò la tradizione scritta e con lei la correzione/corruzione della conoscenza. Nella Bibbia viene raccontato come il tempo di Babele, della confusione delle lingue dove la conoscenza non poté essere trasmessa che a pochi iniziati che venivano a contatto con qualcuno che l’aveva preservata integra.
Con il film di Wenders siamo ritornati alla potenza del simbolo e dell’immagine primordiale.
Wim Wenders ha fatto qualcosa di geniale.
Non ha raccontato un plot, una trama, qualcosa di visto e già rivisto e digerito, ha trasmesso un’esperienza e l’ha fatto attraverso un modo scarno, essenziale, nitido, portando gli spettatori attraverso il film ad assaporare un altro stato di coscienza.
Ciò che accade quando si vedono le scene di Perfect Days è qualcosa che assomiglia a un’esperienza mistica, estatica, chi ha fatto meditazione profonda comprende di trovarsi al cospetto di qualcuno che di quella conoscenza ne ha fatto comunicazione viva.
Sei assolutamente nudo davanti allo schermo e perfettamente rilassato. Nel film accade molto poco, ma non ti annoi neanche un secondo, sei risucchiato da ciò che Wenders chiama “mondo analogico” ma che è molto semplicemente uno stato di presenza viva a ciò che accade nel qui ed ora.
Era così il nostro mondo analogico ai tempi prima del digitale?
Assolutamente no.
Eravamo comunque distratti da qualcosa.
Il regista tedesco invece racconta il “suo analogico”, un mondo dove tutto accade nel presente e ogni cosa ha il sapore di un’acuta meraviglia primordiale.
Potremmo chiamarlo uno stato di contemplazione senza aspettative né giudizio, di apertura totale ben espressa dalle parole del protagonista Koji Yakusho alla nipote “un’altra volta è un’altra volta, adesso è adesso”.
Qui è tutta la weltanschauung dell’autore, e la poesia dell’adesso si dilata vivida nei paesaggi che si aprono a un tratto tra un lavoro di pulizia alle toilette pubbliche e un altro, in quei silenzi che catturano e ti risucchiano in uno spazio animico di quiete, in quel sorriso che saluta il giorno, nelle povere parche parole che sparute tracciano armonie, in quella modalità molto Giappone Zen dove qualunque gesto è rarefatto e a suo modo perfetto perché c’è quel fare al meglio ogni più piccola cosa…
La poesia dell’adesso chiude in un cerchio la ricerca di significato e la traduce nelle visioni che appaiono tra i raggi del sole e gli alberi e in quella specie di stato di pre sonno che ci accompagna al sogno.
La vita come visione.
Il tempo come attimo eterno.
L’esperienza come presenza.
E il senso del sacro che attraversa tutto il film come preghiera.
La genialità di Wenders attraversa i muri spessi del sonno, la confusione di Babele della nostra epoca e si fa strada, portando nel nadir della materia il messaggio di un altro stato di coscienza.
Come l’alba di un sole nuovo che nasce.