Volver: ritorno (e fine) per il Commissario Ricciardi
E così si conclude il Commissario Ricciardi. La guerra è iniziata, e il commissario che ha la visione dei morti ammazzati torna ad essere il barone Luigi Alfredo di Malomonte: nella sua terra, a Fortino, trasferisce la famiglia.
È il luglio del 1940, l’Italia è in linea con la Germania nazista nella lotta antisemita, e Ricciardi è preoccupato per la figlia Marta e per i suoceri, in pericolo per le origini ebraiche. Così, nel paesino del Cilento a un’ora di calesse da Sapri, torna alle origini, cerca una quiete che a Napoli non ha più. Invece lì, nei luoghi dell’infanzia, dove «tutto era iniziato e lui si era trovato bambino davanti al Fatto», alla capacità di vedere i morti nell’ultimo loro istante di vita, Ricciardi fa i conti con i suoi fantasmi. Torna, come scrive de Giovanni, «alla radice del suo dolore».
Lino Guanciale, nel leggere alcuni passi di “Volver” nel teatro Acacia stracolmo (tanto che ieri, il 26 novembre, la presentazione-spettacolo è iniziata con mezz’ora di ritardo, per fare posto a tutti), si è commosso. Maurizio de Giovanni ci ha abituato ai cicli, alle conclusioni e ai ritorni, con la serie, anzi le serie, dedicate al Commissario Ricciardi. “Volver” (Einaudi, pagine 255, euro 18.50) conclude una trilogia iniziata con “Caminito” due anni fa e proseguita poi con “Soledad”, sempre per Einaudi, ed è il più intenso dei tre libri, quello sentimentalmente più forte, forse perché ha il sapore del ritorno e, appunto, dell’addio.
Lo scrittore lo aveva detto: quando incomincia la guerra, finisce Ricciardi. Lo ritroveremo (scommettiamo?) un po’ più in là, avanti negli anni, con la figlia Marta già donna, anche lei dotata di super poteri, poiché può “sentire” i pensieri di chi non ha parola: non una dannazione, come quella del padre, ma un dono positivo, una sensibilità che la rende comunque una bambina speciale.
E se c’è qualcosa che unisce tutti i libri che, da quasi vent’anni, Maurizio de Giovanni dedica al personaggio di Ricciardi, è questa sensibilità verso le umane sofferenze: un “senso del dolore” come si intitolava uno dei primi libri della saga, che da individuale si fa collettivo. È pietas, umana compartecipazione, non solo per chi è in una posizione che oggi chiameremmo di evidente “svantaggio sociale” – come i poveri, gli emarginati della società come il travestito Bambinella (cui spetta, per sua e nostra fortuna, anche uno spiccato ruolo comico, che nei romanzi di de Giovanni non manca mai), ma anche per i “cattivi”, quelli che la sorte, la vita, le circostanze, hanno messo dalla parte sbagliata della storia. Il senso di giustizia in Maurizio de Giovanni è più forte, certo, del diktat della legge, ma non prevale sulla sua inclinazione a uno sguardo caldo verso le umane debolezze, anche quando portano a gesti estremi. C’è comprensione per gli assassini, non giustificazione, perché sono spinti da impulsi forti, che siano la fame, la passione, la gelosia, la paura. E c’è comprensione anche per il dottor Modo, il medico antifascista che in “Volver” rimane in città, per combattere da partigiano un po’ ingenuo, e che il fido brigadiere Maione deve, con un espediente, salvare.
E le donne? Ci sono anche qui: ricompare la bellissima Livia, innamorata senza speranza dell’ombroso commissario dagli occhi verdi, c’è Bianca, la nobildonna relegata al ruolo di amica, c’è Nelide, la tata rappresentata in tutta la sua buffa rozzezza di tratti e di parola, e c’è una maestra di paese, Giovanna, che si scoprirà avere poi un filo che la lega a Ricciardi. E la piccola Marta, naturalmente. Ma soprattutto, e sempre, c’è Enrica, l’amore perduto ma mai andato davvero via, che ha dato senso e sentimento a tutto il ciclo ricciardiano, e che fa di Maurizio de Giovanni innanzitutto uno scrittore d’amore, suo malgrado.