Un chilo alla volta, il viaggio dalla prigione dell’obesità di Irene Vella
«Io all’inferno ci sono stata e ne conosco anche il peso specifico. Quarantadue.
Quarantadue erano i chili di troppo che mi imprigionavano nel corpo e nell’anima. A volte li sento ancora addosso. Come quegli sguardi, un misto tra il disgusto e la compassione, “oh poverina, e pensare che ha un viso così bello, se solo non fosse così grassa!”. Sì, ero quella bella di faccia. Il resto era tutto troppo». Così, Irene Vella nel suo libro “Un chilo alla volta. Viaggio di andata e ritorno dalla prigione dell’obesità” (Feltrinelli).
«Vi siete mai guardate allo specchio senza riconoscervi? – dice l’autrice - Io l’ho fatto per tanto, tantissimo tempo. Forse troppo. Avete mai sentito il respiro cedere, mentre il desiderio di cibo cresceva?Io lo sapevo: non ero il mio peso, ma lo sono stata a lungo. Io non ero curvy, ero grassa, eppure odiavo quella parola. Che in realtà, se uno si accetta, non fatica a riconoscerlo: dopo tutto, è la descrizione di un corpo, come esiste il magro, così il grasso. E allora perché io non volevo sentirmelo dire? Io non mangiavo per fame. Né mangiavo per noia. Mangiavo dolore.
Volevo soffocare il pianto con il cibo. Volevo vincere la guerra e alla fine ho perso me stessa. E sono scesa all’inferno. L’inferno dell’obesità. Ma la fine non era la fine. Era l’inizio della mia seconda vita».
La prefazione è di Giovanna Botteri
«Quando Irene mi ha chiesto di scrivere la prefazione al suo libro – spiega Giovanna Botteri le ho detto immediatamente sì, non ho avuto bisogno di rifletterci, perché lei mi è piaciuta subito, vera e diretta, come le sue parole, che, a volte, scavano nell’anima di chi legge fino alle lacrime, altre ti fanno sorridere, ma senza mai farti smettere di pensare. Perché la storia che oggi ci racconta , non è solo la sua, ma di tutte quelle donne che ad un certo punto della loro vita si sono sentite perse, racchiuse in un involucro da cui non si sentono rappresentate, soffocate da una routine e da un peso che le imprigiona nei movimenti e nell’anima.
Quello di Irene diventa un racconto corale, che, aldilà dei vissuti individuali - diversi per ciascuno -, ripercorre strade che sono di molte e che l’hanno trascinata in una situazione che sembrava senza via d’uscita, schiacciata da una parte dal senso del dovere, quello che ti spinge a dare il meglio sì, ma per gli altri, dimenticandosi di sé stessa, mettendo nell’angolo quella piccola bambina che baciava gli specchi per lasciare tracce di sé».