Dati allarmanti dal rapporto Svimez, folle cancellare il Reddito di cittadinanza
di Sergio D’Angelo
Dopo il +6,6% del 2021, l’anno del rimbalzo post lockdown, e il robusto +3,8% previsto per il 2022, il Pil italiano dovrebbe crescere appena dello 0,5% nel 2023. Le cifre però ingannano, perché mentre al Nord crescerà di quasi un punto percentuale, nelle regioni meridionali farà registrare una contrazione fino a -0,4%. È solo la prima delle brutte notizie che ci riguardano contenute nel Rapporto Svimez 2022, presentato l’altro ieri, lunedì 28 Novembre, alla Camera dei deputati.
A determinare la riapertura della forbice fra Nord e Sud sarebbero secondo lo Svimez gli effetti territorialmente asimmetrici dello shock energetico che stanno penalizzando soprattutto le famiglie e le imprese meridionali. E così dopo il ragguardevole +5,9% del 2021 (contro il +6,8% del Centro-Nord, ma superiore alla media della UE a 27 paesi ferma al +5,4%) e il +2,9% previsto per quest’anno, il segno meno in un paese che complessivamente cresce poco anche dove questa crescita avviene disegna uno scenario di recessione in un’Italia in stagnazione.
Come conseguenza del caro energia e dell’aumento dei prezzi dei beni alimentari la povertà assoluta potrebbe raggiungere l’8,6% della popolazione italiana, coinvolgendo 287 mila famiglie. Anche in questo caso però dietro la media nazionale si celano differenze ancora più rilevanti di quelle del Pil perché dei previsti 760 mila nuovi poveri, mezzo milione si concentrerebbero al Sud. L’aumento dei prezzi ha infatti un peso maggiore sulle famiglie meridionali e in generale su quelle a più basso reddito perché la loro spesa si riduce ai soli bisogni “incompribili”, quelli che hanno fatto registrare la crescita più elevata e che rappresentano il 70% delle uscite dei nuclei familiari in questione. Inoltre al Sud c’è un numero più elevato di famiglie numerose con tre o più componenti.
Nelle regioni meridionali il lavoro resta più precario e meno retribuito, all’interno di una dinamica nazionale che ha visto ridursi le retribuzioni in termini reali di circa 9 punti al Sud e di circa 3 al Nord, tra il 2008 e il 2021. Il tasso di occupazione femminile è del 34,3%, contro la media UE a 27 paesi del 64,7% e il 59,3% del Centro-Nord. In altre parole mentre nelle regioni meridionali ci si ferma ai valori fra i più bassi dell’Unione, nel resto del Paese i valori sono di poco inferiori alla media. Per le donne è più difficile lavorare anche per la carenza dei servizi per la prima infanzia come gli asili nido. Nel dettaglio, si legge nel Rapporto che “la spesa per bambino residente di 0-2 anni è 883 euro al Nord-Ovest, 1.345 euro al Nord-Est, 1.526 euro al Centro, 308 euro al Sud e 429 euro nelle Isole”.
La scuola offre un altro esempio di fortissime disuguaglianze territoriali. Al Sud solo il 18,6%, contro il 48,5% del resto del Paese, frequenta a tempo pieno. Il 79% degli studenti delle scuole primarie statali meridionali non ha la mensa. In Campania, la percentuale arriva all’87%, in Sicilia addirittura all’88%, quasi nessuno in pratica. Due studenti su tre delle primarie sono iscritti in una scuola senza palestra, ma ancora una volta Campania e Sicilia fanno peggio della pur drammatica media meridionale rispettivamente con il 73% e l’81%. Ed è una lista che potrebbe continuare all’infinito con una sfilza di numeri altrettanto impressionanti.
In questo scenario, va da sé che le politiche di sviluppo rivestono un ruolo fondamentale nei prossimi anni, dai fondi strutturali europei al Pnrr, passando per le risorse della coesione nazionale (PSC), ma nel frattempo anche solo ipotizzare il taglio del Reddito di Cittadinanza già nel corso del prossimo anno è un’idea pericolosa e avventata perché le conseguenze si abbatterebbero come una scure sulla coesione sociale del Paese, con un larga percentuale di abitanti del meridione sotto la soglia di sussistenza. Bisogna opporsi, ma bisogna anche vigilare perché ci sia vero sviluppo.