Novembre e i riti dell’Amore
Novembre è la stagione dei morti, la stagione delle foglie che si accartocciano al suolo e ci fa ricordare ciò che nella nostra cultura viene sempre sepolto sotto la coltre del silenzio, la parte dimenticata, rimossa, che nasconde il tabù primordiale: il nostro rapporto con l’altro volto della vita, il nostro rapporto con la morte.
Edgar Lee Masters nella sua splendida Antologia di Spoon River ci accompagna in un dialogo ininterrotto con quelli che non ci sono più e che in qualche modo continuano a vivere, nei nostri cuori e nei nostri ricordi.
Ugo Foscolo ne I sepolcri ci racconta che “sol chi non lascia eredità d’affetti poca gioia ha dell’urna” e ci invita a eternare in qualche modo il nostro viaggio e a far sì che quel qualcosa di vivo che ci rappresenti possa essere “armonia che vince di mille secoli il silenzio”.
Ma cosa continua a parlare di noi, “dopo”?
Dopo che si spengono le luci, dopo che siamo partiti per il nostro lungo e indefinito viaggio?
Cosa resta di ciò che eravamo?
È questo ciò da cui rifuggiamo, eppure in questa domanda c’è il nucleo caldo e vivo di un intero esistere.
Forse ciò che resta, provo a sussurrare, a suggerire, è la nostra umanità, il filo invisibile che si tramanda di madre in figlio, di padre in figlia, il tessuto d’amore che ci permette di affrontare il buio con coraggio, cioè col cuore aperto.
L’Amore è ciò che ci permette di affrontare la vita, quando siamo inermi e nasciamo e il nostro grido primordiale lacera l’aria e il pianto si condensa intorno a quel cordone ombelicale spezzato. Ma ci sono le mani della madre, il suo caldo abbraccio che ci conducono piano piano dall’utero alla vita, a questo luogo che all’inizio ci appare inospitale.
Mi piace pensare che accade così anche quando approdiamo nell’altra dimensione.
Abbiamo bisogno di mani calde e amore che ci accompagnino, che ci confortino che possano dirci “non aver paura, è arrivato il tempo di andare, sii pronto a questa nuova meraviglia”.
Si vive con fiducia, affidandosi, mi piace pensare che si possa morire con la stessa fiducia, affidandosi all’ignoto con amore.
Non sappiamo cosa c’è oltre il velo, ma come Dante viene accompagnato nel suo viaggio nell’Oltretomba da Virgilio, simbolo della saggezza e della conoscenza, e poi da Beatrice, simbolo della fiducia e dell’amore, così anche noi abbiamo bisogno di ciò che nella nostra cultura è stato messo da parte, di quei rituali di accompagnamento alla morte che rendono più naturale e dolce il passaggio.
Abbiamo bisogno di qualcuno che raccolga il nostro ultimo respiro, i desideri, il pianto e che sappia siglare con noi l’ultima pagina, quella dell’addio.
Quando sei sulla sponda, pronto a essere traghettato da Caronte, capisci le distonie e i paradossi della nostra vita, quel nostro continuo e inutile voler trattenere, la fallacia umana, il mito del voler a tutti i costi preservare il corpo, in un duello senza scampo già perduto.
Non un giorno di più, ma la dolcezza del tempo che resta... Questo dovrebbe essere il fulcro del rito di passaggio.
Noi invece finiamo le nostre vite spesso disperati, in un ospedale anonimo, nel pieno dell’alienazione e dell’estraneità, ridotti a corpi sbilenchi senza dare alcuno spazio all’anima.
Più che “la cura” del corpo martoriato, abbiamo bisogno di una cura per l’anima abbandonata, quel silenzio necessario al cuore per poter salutare.
Non siamo macchine.
E abbiamo bisogno di essere educati in vita al naturale passaggio della morte.
Abbiamo bisogno di profanare quel tabù meccanicistico che ci vuole esseri tecnologici da riparare.
Abbiamo bisogno di scardinare il non senso della vita che ci rende disperati in vita e in morte.
Abbiamo bisogno di riconnetterci al “sacro” e al mistero di ciò che siamo davvero.
Almeno in punto di morte che ci sia qualcuno che ci prenda l'anima e che l'abbracci stretta.
Che ci sia un posto per i traghettatori di anime.
Quelli che in tempi antichi si identificavano in Ermes psicopompo e che rinsaldavano il legame tra vita e oltre vita, nel cerchio magico dell’infinito.