Tutto un equilibrio sopra la follia
Il 10 ottobre si è celebrata la giornata mondiale della salute mentale.
Ma cos’è oggi la salute mentale?
Cosa significa star bene? Quale è il confine tra normalità e follia?
Castaneda, nei suoi libri e grazie agli incontri con Don Juan, stregone sudamericano, dice una cosa molto interessante, parla del “punto di unione” come punto di aggregazione di ciò che viene condiviso dagli uomini di un’epoca. Il punto di unione stabilisce il comune sentire, ciò che noi siamo soliti chiamare “realtà”, quindi una sorta di visione condivisa fatta di idee specifiche intorno alle situazioni, di dogmi accettati, di luoghi comuni, di cose che solitamente si fanno in risposta ad altre cose.
È ciò che stabiliva la linea del Tonal, secondo Castaneda, cioè la realtà concreta, quotidiana, empirica, quella che ti fa pagare le bollette tutti i mesi, andare al lavoro, mettere su famiglia. Ma il Tonal è un’isola, un’isola solida immersa nel Nagual, l’inconoscibile, l’imponderabile, il senza nome.
Bisogna avere un Tonal forte per attraversare la vita, dice lo stregone Don Juan.
Perché se incontri il Nagual non preparato ne sei completamente sommerso.
La follia insomma è entrare nel Nagual senza la protezione del Tonal.
E questo genera dolore immenso, perché è come perdere se stessi.
Basaglia negli anni Settanta con la legge omonima decise di sdoganare la follia, di liberarla dalla prigione in cui era rinchiusa. Si rinchiude tutto ciò che è diverso per paura, lo si vuole contenere, limitare. Ma ci si dimentica molto spesso che l’unica vera cura è com-prendere, cioè prendere con sé, tracciare dentro di sé il percorso di chi si incammina oltre il limite.
Se ci guardiamo dentro, siamo tutti folli. Cioè siamo tutti capaci di trascendere il limite.
Nel mondo antico i folli erano i profeti, i veggenti che si diceva fossero visitati dal dio.
Grazie alla loro follia erano capaci di vedere oltre, di visitare l’inesplorato.
C’erano le feste orgiastiche, i culti dionisiaci per liberare la parte folle. Viaggiavano insieme Apollo e Dioniso, regola e infrazione della regola, normalità socialmente accettata e follia.
Il dio Pan nei boschi con la sua voce spaventosa incuteva una grande paura, il timor panico…
Era il tempo in cui le problematiche psicologiche avevano una loro “sacralità”, erano in qualche modo “divine”, perché rappresentavano la porta per comprendere se stessi e il mondo. La malattia era la benedizione del dio per riconnettersi al divino…
Era il tempo in cui c’era il mito per comprendere cioè prendere con sé e non ci si tagliava fuori dall’esperienza vitale. Era il tempo della filosofia che restava sulla domanda e non necessariamente prevedeva uniche risposte.
Siamo approdati oggi alla civiltà della tecnica, enormemente separativa, esiste la salute da una parte, la malattia dall’altra. Se stai male non devi com-prendere, ma risolvere, quindi in sintesi tagliare via l’esperienza, prenderti una medicina che annulli il malessere e tornare a essere “normale”, cioè fattivo, efficace, efficiente nella società dei consumi, anche se spento, o morto nell’anima. Ed ecco che accade ciò che è comune nei nostri tempi: quel serpeggiare sottile di malessere, quell’inquietudine che traspare, subito soffocata. Si cerca subito la ricetta, la cura immediata per non sentire il male, per “risolvere il problema”.
Nella società della tecnica tutto è un problema matematico con la soluzione a portata di mano.
Ma quel male era il dio che veniva a bussare alla porta, era un atto numinoso.
Era una benedizione per ritornare alla luce di un’esperienza transpersonale più alta, era ispirazione, intuizione. Era la strada che poteva riportarti alla tua ghianda personale e unica, per rappresentarla nel modo come la raccontava lo psicoanalista junghiano James Hillman.
Era la chiave che gli dei ti lasciavano per farti ritornare a casa.