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Storie dimenticate: la strage dei valdesi
Worms, 18 aprile 1521: dinanzi al Reichstag riunito dal giovane imperatore Carlo V, un monaco agostiniano, docente all’Università di Wittenberg, si rifiuta di abiurare le sue idee in materia di fede. Il suo nome è Martin Lutero. Aveva inizio così, cinquecento anni fa, lo scisma religioso che avrebbe messo in crisi, agli albori dell’età moderna, la coscienza europea.
Se prima di allora i movimenti ereticali erano stati sempre ricondotti all’obbedienza, questa volta ci si trovava di fronte ad una situazione del tutto nuova ed inaspettata. Se ne rese conto, anche se tardivamente, lo stesso Carlo V quando vide naufragare nella dieta di Augusta del 1530 ogni tentativo per dirimere le già profonde e difficilmente sanabili divergenze. Certo è che nel terzo decennio del secolo il movimento protestante continuava ad espandersi senza sosta: dalla Germania aveva raggiunto i paesi dell’Europa centrale, poi quelli scandinavi, l’Inghilterra, la Francia e focolai cominciavano ad intravedersi anche in Spagna ed in Italia. L’unità della chiesa non appariva più garantita, nonostante si stesse delineando in Europa, dopo la battaglia di Pavia (1525) e la pace di Cambrai (1529), un nuovo assetto geopolitico saldamente controllato da Don Carlos¸ re cattolico e imperatore sacro e romano.
Ma fu solo a partire dagli anni Quaranta, di fronte alle ripetute e fallite mediazioni tra le parti in causa, che si registrarono le offensive più energiche: da parte della chiesa, con il riconoscimento della Compagnia di Gesù, l’istituzione dell’Indice dei libri proibiti e la riorganizzazione del Tribunale dell’Inquisizione. Da parte della diplomazia imperiale, divisa tra i due teatri più deboli dello scacchiere europeo: quello germanico, reso instabile dall’atteggiamento renitente dei principi protestanti, le cui spinte autonomistiche in chiave antiasburgica erano sollecitate e sovvenzionate dal nemico francese. E quello del Mediterraneo, dopo che il pesante scacco subìto nel 1541 sotto le mura di Algeri, la città avamposto della pirateria nel Mediterraneo occidentale, aveva fatto dimenticare in fretta il trionfo di Tunisi di qualche anno prima. Inoltre, un nuovo protestantesimo stava prendendo piede a Ginevra con Calvino.
La storica vittoria di Mühlberg del 1547 sul fronte più agguerrito della resistenza protestante, quello sassone, avrebbe chiarito in quale direzione gli sforzi imperiali si sarebbero orientati da quel momento in poi. Ma essendo la fede incoercibile, all’obbedienza dei principi non fece seguito quella dei popoli. Lo capì bene l’Imperatore, che si vide costretto nel 1555, l’anno della sua abdicazione, a concedere la libertà di culto nei territori asburgici. Alla metà del secolo di ferro, l’Europa non appariva più Regnum esclusivo della Sanctae Ecclesiae. Il cristianesimo riformato convinceva e piaceva. Alla politica, che ne fece uno strumento di equilibrio, in un periodo in cui le alleanze si facevano e disfacevano in ragione dei giusti contrappesi al potere dominante; al capitalismo finanziario, che vedeva nella nuova morale protestante, soprattutto nella sua versione calvinista, una nuova etica sociale coerente con le aspettative dei ceti medi in ascesa; a molti cattolici, che da tempo auspicavano una riforma della chiesa romana, la cui missione sembrava essersi ridotta “ad estorcere tasse ed a nutrire cortigiane”. Intanto, il più volte reclamato Concilio fu convocato a Trento ma alla fine non riconciliò assolutamente nulla: la Riforma continuò ad espandersi come un fiume in piena. Fino a penetrare in Italia, nel paese più devastato dalla lunga guerra, dalla fisionomia irriconoscibile rispetto a pochi decenni prima, di cui conserviamo ancora oggi segni evidenti nell’organizzazione dello Stato, delle sue tante monadi in cui ci appare diviso e la cui mancata, comune partecipazione alla progettualità sociale ha prodotto e tuttora produce un vuoto che turba sia la politica pratica sia le strutture deontologiche della società.
Frantumazioni ben più evidenti si ebbero nel Mezzogiorno, dove a partire dal quarto decennio del Cinquecento, ossia dal momento in cui si era assestato il dominio spagnolo, la sintesi tra società e classe dirigente fu scossa da nuove, profonde contrapposizioni che si aggiunsero alle vecchie. Lo sviluppo delle esigenze di accentramento, la necessità di controllare le forze centrifughe e particolaristiche interne portarono ovunque allo scontro tra due culture: la tecnica dei giuristi e la marziale degli aristocratici. Infatti il metodo di governo del pactismo, di tradizione aragonese, contrattualistica e di carattere costituzionale, si era radicato nella dialettica politica del Regno in forme più ideali che reali e non riuscì ad impedire l’impatto tra le due concezioni e tra i due gruppi di potere. Che si risolse con la vittoria dei togati. La forte compressione cui l’aristocrazia di spada venne sottoposta produsse in quel ceto un sentimento di frustrazione e di vendetta antispagnola, che esplose nella rivolta popolare del 1547 contro il Sant’Uffizio, nel tradimento (1552) del più potente tra i feudatari del Regno, Ferrante Sanseverino d’Aragona, principe di Salerno, ed infine nella folle e personale guerra di un Papa napoletano e nobile nel 1556 (Paolo IV Carafa).
I tentativi di liberarsi del dominio hispanico e le conseguenze negative del loro fallimento bloccarono ogni intraprendenza. Era ormai a tutti chiaro che il primato della nobiltà come classe dirigente poteva sopravvivere a patto che essa fosse in grado di rinnovare i vecchi statuti cavallereschi, aggiornando la propria mentalità e dando prova di affidabilità. Fu il diffondersi del protestantesimo a offrire questa opportunità dopo la morte di Pedro di Toledo (1553), in un clima sociale rinnovato e più disteso. La soluzione era una crociata politico-religiosa, che avrebbe conquistato il favore di Filippo II, riconciliato la Fidelissima ciudad con la Corona e ricompattato in un unico fronte le forze ecclesiastiche con quelle civili e feudali. L’offensiva non si fece attendere. A farne le spese fu una piccola comunità di Valdesi, pacifici ed inermi contadini, provenienti dalle valli occitane del Piemonte ed insediatisi sin dal XIII secolo in alcune terre della Calabria Citeriore: Guardia, Montalto e San Sisto. L’unico torto di quella povera gente era stato quello di convertirsi alla fede riformata. Una infamia che non poteva passare inosservata. Nel giugno del 1561, in pochi giorni, l’appennino calabro si tinse di rosso, del sangue di circa duemila onesti ugonotti, che furono trucidati e sgozzati come animali in fuga dall’odio fanatico delle milizie mercenarie di Ascanio Caracciolo, composte da banditi e fuorusciti disperati e senza scrupolo, su cui era totale il controllo del potere feudale. Di quel “sacro macello”, della nostra “strage di San Bartolomeo”, dovremmo tenere meglio viva la memoria.
Due secoli dopo, all’analisi di quelle tragedie sanguinose, meglio note come guerre di religione, Voltaire dedicò un trattato, un capolavoro del pensiero illuministico maturo, destinato a diventare un autentico best-seller. Se siamo figli della fragilità, fallibili e inclini all’errore, questa la tesi principale sostenuta dal grande philosophe, l’unica soluzione per garantire la pacifica convivenza tra gli uomini non può che essere dialogica e relativistica. Spetta dunque allo Stato, inteso come potere convenzionale, il compito di farsi arbitro ed interprete imparziale dei comuni interessi, di regolare lo statuto sociale di una comunità, di punire i comportamenti e non le opinioni, di tutelare le diversità. I valori sociali poiché nascono dall’esperienza e dal confronto cambiano continuamente, sono precari ma gli unici su cui possiamo fare affidamento. E vanno tutelati da ogni pretesa idealistica, ontologica, in una parola Assoluta. Riflessioni profonde, ancora oggi molto attuali, che maturarono all’indomani del caso Calas, il commerciante ugonotto condannato al rogo dai magistrati, i “fanatici a sangue freddo”, con l’accusa infondata di aver ucciso uno dei figli per impedirgli di convertirsi alla fede cattolica. Voltaire si espose in sua difesa e riuscì ad ottenere dal Parlamento di Parigi la riapertura del processo, perché “l’onore dei giudici consiste, come quello degli altri uomini, nel riparare i loro errori”. La memoria di Jean Calas venne completamente riabilitata. Gran parte dell’opinione pubblica europea si appassionò a quella vicenda e fece sentire forte il proprio grido di giustizia: écrasez l’Infâme!
Raffaele Iovine
Storico
Presidente Associazione Pietrasanta Polo Culturale Onlus
Nota della redazione: Inauguriamo con questo articolo la nostra rubrica di storia dedicata ai fatti meno noti che hanno segnato il destino del Mezzogiorno.