L’Amore assente chiamato Narcisismo
Si fa un gran parlare di narcisismo e della patologia ad esso associata.
È diventato di uso comune etichettare così i comportamenti di una relazione.
Lowen, il padre della bioenergetica, vari anni fa, scrisse un bellissimo libro sul narcisismo e ci raccontava che è un po’ la frattura di oggi, di una società dei consumi dove assistiamo alla più grande operazione di sconnessione dal corpo di tutti i tempi e dove per “sentire” sei costretto ad alzare continuamente il tiro, a stimolare con immagini e con un uso spasmodico del mentale il corpo anestetizzato.
Ma siamo davvero diventati tutti narcisisti?
O il narcisismo nasconde qualcosa di molto più profondo e serpeggiante, un male oscuro che si annida nell’animo umano?
Io la definirei assenza di spiritualità, cioè di quella matrice elementare che ci connette al qui ed ora, attraverso il corpo, il respiro e la presenza a quel respiro, e ci fa stare nella dilatazione abnorme di spiegazioni mentali e costruzioni e interpretazioni.
Forse bisognerebbe tornare alla semplicità che non è banalità ma esperienza profonda della complessità.
Abbiamo bisogno di tornare all’esperienza così com’è.
E non alla categorizzazione.
Altrimenti finiamo con il patologizzare la realtà e farla finire nello schema di un DSM (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali).
Cosa ci importa di bollare con un termine un comportamento se non comprendiamo il nesso profondo tra ciò che vediamo e noi stessi?
Guardiamo alla moderna società occidentale e ai suoi culti laici: assistiamo a un teatro pirandelliano dove il mentale e la ricerca della spiegazione che chiude il cerchio sostituiscono il sentire, e il corpo è forzato in un modello omologato.
Per la cultura contemporanea l’essenza è minacciosa perché non permette manipolazione. E c’è bisogno di corpi estranei a se stessi, intrisi di alienazione perché si possa agire su di essi tramite un bombardamento mediatico continuo e convincerli all’acquisto sterile.
Una società morente, insomma, impoverita di metafore, ridotta a uno scenario tecnico di informatizzazione capillare dove deprivati di natura e resi simile a un mega prodotto di organi assemblati l’uno accanto all’altro, siamo destinati a una sterile sopravvivenza intrisa del tabù della morte.
Si evita la morte perché non si è vivi.
Perciò come un serpente che si morde la coda ci si nutre morbosamente di sconnessione.
Si cerca per non soffrire di non entrare in contatto col corpo, con le radici e con le cose semplici del vivere, vita, morte, vita, naturale fine delle cose, inspirazione ed espirazione, spazio e pienezza, vicinanza e abbandono.
E questa sconnessione viene chiamata narcisismo.
Poi c’è la difficoltà relazionale.
Si trasferisce in una costruzione fittizia la carica di un desiderio, ultimo rimasto, ultimo a mendicare vicinanza e storia e bisogno di contatto.
Ma è possibile l’amore tra persone disconnesse da se stesse?
Nel mito Narciso era colui che innamorato di sé si specchiava nell’acqua fino ad esserne inghiottito e non si riconosceva.
Ecco, mi piace dilatare questo concetto, Narciso è colui che non solo non si conosce, ma che quando si vede non si riconosce.
Se invece di persone si incontrano fantasmi, ciascuno perso in una propria proiezione impossibile da dire, da definire e da comunicare, e ciascuno che chiede attenzione e spazio, com’è possibile vivere l’esperienza dell’amore?
Sarà una passione, un surrogato, un bisogno, un calesse…
Ma Eros?
Quel messaggero di amore, il daimon di cui parlava Diotima nel Simposio di Platone, cioè quella forza potente, ponte tra umano e divino che ci ricongiunge all’anima attraverso sophia, cioè attraverso la nascita della saggezza, dov’è?