L’Inquisizione e la paralisi della giustizia in Italia
Il fenomeno dell’Inquisizione, come è noto, ha occupato un posto centrale nella vita pubblica europea, ed in particolare, nell’età moderna, della Spagna, della Sicilia e dell’intero Mezzogiorno. Ed invece questa istituzione è stata avversata e depotenziata nei paesi che hanno fatto la civiltà moderna: Francia ed Inghilterra.
È un tema che non riguarda questioni di dettaglio erudito, ma investe direttamente le origini di una delle maggiori difficoltà teoriche e di applicazione pratica che l’intera umanità ha dovuto affrontare in tutto il mondo, che oggi è di attualità e continuamente dibattuto nel nostro Paese: il problema logico, metodologico ed istituzionale della giustizia, di come e di dove essa ha le sue basi di legittimazione e di appoggio, e dunque se la provenienza del potere giudiziario sia metafisica o sociale, aprioristica o sperimentale, direttamente divina o immediatamente umana. Dalle popolazioni primitive il problema fu risolto mediante il ricorso alla sfera di ciò che non è sperimentalmente conoscibile: infatti, le forze metafisiche manifestavano la loro presenza e la razionalità assoluta e totale del mondo mediante avvenimenti magici, interpretando i quali era possibile risolvere le controversie umane. Anche i minimi segni, apparentemente gratuiti, indicavano la volontà divina e dimostravano chi avesse ragione e chi torto, ossia chi, in ognuno degli innumerevoli casi specifici, era benvoluto o rifiutato dagli dei. Si risolvevano così le controversie tra gli uomini. Crollata nella seconda metà del primo millennio l’alta civiltà giuridica romana classica ed imperiale, questa soluzione primitiva riemerse e fu generalmente adottata in tutta Europa. Il duello giudiziario indicava non solo chi era più forte, ma chi fosse nel giusto, ossia chi aveva dalla sua parte il diritto. Ma, dopo la svolta dell’anno mille, ci si rese conto che quella soluzione dava luogo a gravi manifestazioni di prepotenza, e che in genere era fallace e quindi ingiusta la corrispondenza tra diritto e magia, perché non si verificava sempre la perfetta coerenza tra volontà divina e giustizia umana, anzi quest’ultima diventava totalmente casuale. La necessità di organizzare la funzione giudiziaria in modo del tutto diverso dette vita a varie soluzioni di quel problema, molto differenti tra loro. In Francia, la monarchia, già accentrata, puntò sulle norme elaborate spontaneamente dalle popolazioni, ossia sugli usi regionali e locali, rivisti ed approvati dal potere centrale. In Inghilterra, su quella stessa base, prevalse il pragmatismo delle popolazioni insulari di origine sassone o normanna, e la monarchia creò corti di giustizia che, mediante la partecipazione ed il parere di ampie giurie, elaboravano di volta in volta ben precisi precetti pratici: formalizzati, trascritti e resi pubblici, costituivano la giurisprudenza che orientava i giudici nei casi analoghi, da risolvere in futuro. Ma fu a sud delle Alpi che, essendo esplosi subito feroci contrasti, emersero tre indirizzi diversi. In ordine di tempo, il primo a reagire fu il papato romano che, negli anni settanta dopo il mille, con Gregorio VII, affermò il suo diritto di decidere del giusto e dell’ingiusto in ogni caso. Questa soluzione inaccettabile in Francia, fu fonte d’intricate interferenze tra autorità ecclesiastiche e centrali nel rinnovato impero romano-germanico, che si estendeva anche a sud delle Alpi.
In questo quadro furono nominati dal papa i primi giudici speciali per questioni di fede, gli inquisitori, attivi specialmente contro le eresie, e non a caso operarono nella Provenza, dove era stata forte l’indipendenza di pensiero e di religione e dove l’indipendenza del potere centrale parigino richiedeva la più attenta cura dei papi. Essi, da parte loro, nei primi tre secoli dopo il mille, ossia fino a Bonifacio VIII, cercarono di sostituire il vecchio disordine della giustizia magica, fondata sull’influenza analitica e capillare del divino, con l’onnipresenza della mediazione pontificia, fondata sul diritto canonico. Ma questa soluzione solo in parte fu accettata dalla civiltà comunale subalpina. Le scuole, specialmente centro-italiane, dette dei glossatori, già all’inizio del XII secolo fecero ricorso alla riscoperta delle norme e delle interpretazioni romane classiche; poi i commentatori fecero crescere le ricostruzioni dogmatiche e le interpretazioni molteplici, che divennero una foresta vergine, ricca di una vegetazione lussureggiante, da cui era possibile attingere tutto ed il contrario di tutto. Operazione facilitata dal fatto che, l’assenza di un potere unico ed autorevole, privava i comuni ed i piccoli principati di un punto di riferimento ben delineato e coercitivo, capace di porre ordine in quel caos. È in questo ambiente, caratterizzato da un’estrema frantumazione e da enormi ed irriducibili contrasti, che Federico II di Svevia si contrappose frontalmente a papa Gregorio IX, attribuendo a se stesso ed ai suoi magistrati, come erede e continuatore dei monarchi bizantini, il diritto di promulgare le leggi, di decidere ciò che fosse giusto ed ingiusto, di giudicare su tutto quanto avveniva nel suo regno.
Proprio nella prima metà del Duecento, ossia in rapporto ai contrasti tra quel papa e Federico II, si fa datare la nascita dell’inquisizione romana come istituzione straordinaria, diversa dalla giurisdizione vescovile. La sconfitta di quel re ed imperatore, la sua morte avvenuta alla metà del secolo, il fallimento della sua impresa diretta a creare una forte monarchia, segnarono l’avvenire di una situazione caotica, in cui le maggiori corti regionali e principesche di giustizia, circondando di rigoroso segreto le loro attività, emanando sentenze prive di altre indicazioni oltre il dispositivo, accrebbero tanto i loro poteri, da porsi come strutture surrogatorie e sostitutive rispetto ai deboli poteri politici centrali: essi erano incapaci di prospettare soluzioni diverse, ed accettavano la versione religiosa romana secondo cui il diritto comune non era né consuetudinario né giurisprudenziale, ma teorico e perenne, nato dalla sintesi della civiltà romana antica e moderna, e si presentava superiore a qualunque normativa mondana. Ciò significava attribuire poteri illimitati, caotici ed incontrollabili al ceto dei togati, ossia ai magistrati ed al loro seguito di officiali e di avvocati. Ma in Spagna la dialettica delle scelte religiose era particolarmente aperta e drammatica, ancora verso la fine del Quattrocento, perché i monarchi avevano imposto a tutti la religione cattolica e dovevano controllare e reprimere sia i residui delle tendenze islamiche e sia la forte componente ebraica che, costretta a convertirsi, era in gran numero divenuta cristiana solo in apparenza (i marrani). Fu Sisto IV, papa francescano (Francesco della Rovere), a concedere nel 1478 a Ferdinando il Cattolico e ad Isabella di Castiglia il potere di nominare due o tre inquisitori di loro fiducia. Si venne così a creare una struttura inquisitoriale che fu diversa da quella romana, ed assunse la funzione di struttura portante del potere monarchico spagnolo.
Attraverso quell’istituzione il re di Spagna controllava non solo l’ortodossia dell’intera società, ma anche la fedeltà del suo apparato giudiziario ed amministrativo. Ne nacque una struttura molto efficiente nel realizzare la coesione, ma anche diretta a sopprimere la pur necessaria dialettica delle idee e le libertà di pensiero e di espressione. Da parte dei governi spagnoli è ovvio che fu massimo l’interesse ad esportare in Italia e ad introdurre nei territori conquistati lo strumento giuridico e giudiziario che tanto aveva contribuito all’assetto della monarchia cattolica; ma, a riprova della grande diversità di tradizioni, di culture, d’interessi e di mentalità delle popolazioni subalpine, esse manifestarono (a Milano, a Napoli ed a Palermo) forme di resistenza e di adattamento molto diverse. Ma fu specialmente nella parte continentale del Mezzogiorno d’Italia che l’opposizione fu energica, riemerse a varie riprese sistematicamente ed i tentativi spagnoli fallirono. Come negli anni Ottanta del Settecento scrisse Frédéric Münter, autorevole esperto danese, «lo spirito liberale del popolo e la coraggiosa resistenza della nobiltà contro tutti gli attentati del dispotismo impedirono che [l’Inquisizione spagnola] estendesse le sue radici» a Napoli e nel Regno. Nella capitale un terrible soulevement scoppiò nel 1547, contro il viceré don Pedro de Toledo, e furono nella città barbaramente trucidati non solo molte centinaia di soldati spagnoli, ma anche le loro famiglie. Dopo di allora la resistenza contro il funzionamento di quel tribunale fu inflessibile e divenne un carattere costante della popolazione È necessario però tener conto di un elemento che, nel realizzarsi di quella resistenza, fu determinante: la forza del potere giurisdizionale e forense, che si era già manifestata in modo aurorale dopo il crollo dell’impresa di Federico II nell’epoca angioina e poi nell’età aragonese, era cresciuta ed aveva fatto sentire il suo peso durante la dominazione spagnola, specialmente dopo che, nel 1542, il ministero togato aveva avuto il pieno appoggio del viceré Toledo contro la nobiltà di spada. L’apparato giuridico, i cui vertici erano concentrati nella capitale, era divenuto, grazie alla sua estrazione borghese e spesso provinciale ed alla sua rivalità con la nobiltà di spada e con gli ecclesiastici, il nerbo centrale della società napoletana e seppe usare, specialmente in due occasioni, durante le rivolte del 1547 e del 1646-1647, la base popolare come suo punto d’appoggio e come suo strumento contro gli spagnoli; riuscì in questo modo ad evitare che dall’esterno penetrassero nel Mezzogiorno altri sistemi di controllo e di coazione coordinati ed efficienti, tali da poter ridimensionare e correggere quelle condizioni di primato. Pertanto, una struttura sociale poco attrezzata a promuovere l’economia ed incline all’intermediazione parassitaria condizionò e caratterizzò a lungo le deboli attitudini del Mezzogiorno a correggere ed a far progredire i suoi bassi livelli di benessere materiale.
Perciò la resistenza contro l’inquisizione spagnola fu il segno anche di un complesso gioco di poteri e di forme culturali della società meridionale, ossia di antichi assetti che presentavano inconvenienti molto gravi sul piano della modernizzazione e della produttività, ma che ponevano come vitale l’esigenza di conservare la specificità e la fluidità del proprio modello di organizzazione sociale, affidata ad uomini di cultura umanistica, solo formalmente idealistica. Dunque la vittoriosa resistenza contro le terrible monstre fu espressione diretta dei caratteri centrali della civiltà napoletana, nei suoi aspetti sia di forza e sia di debolezza.
Con questo articolo provo ad assolvere in minima parte ad un debito di gratitudine, nel modo che mi riesce meglio, nei confronti degli amici Luigi Petrillo, Virgilio Marino, Rino Nugnes e Maurizio Sica. Avviare una corretta diagnosi delle difficoltà in cui si imbatte quotidianamente la giustizia italiana è l’indispensabile inizio per contribuire alla loro soluzione. Compiere questa operazione non è difficile; occorre solo una sincera, umile disponibilità a voler capire.