Aspettando il 23

Dite la verità, dal profondo del vostro azzurrissimo cuore: voi non la volete vedere la partita venerdì sera. Zitto, zitto, a me lo potete dire. Non lo riferirò. No, voi dite così, che ce la dobbiamo vedere (questo verbo, dovere, perché il tifoso non se la vuole guardare la partita, se la deve guardare, lo vive come un obbligo morale, perché se non se la vede chissà cosa succede poi), dicevo che ce la dobbiamo vedere.
Tutti insieme appassionatamente, con i maxischermi in giro per la città – Piazza Plebiscito, Piazza Mercato e Piazza Giovanni Paolo II a Scampia – un altro maxischermo avrebbero dovuto metterlo davanti alla cardiologia del Monaldi, ma va bene così.
Oppure a casa, abbracciati sul divano con le sciarpette e le bandierine e una quantità indecente di birra, o per i più fortunati e lungimiranti al Maradona. Ma nel profondo, voi ve la dovete vedere, ma non ve la volete vedere. Perché siete terrorizzati, avete il cuore a pezzi, il fegato non ne parliamo, perché il Napoli ci sta riducendo fisicamente uno schifo. Perché due anni fa era diverso.
Due anni fa abbiamo vissuto una favola, qualcosa di incredibile, epico, difficile da raccontare a chi, fra anni, non l’avrà vissuto: «Sai, c’è stato un tempo, amore della zia, tu eri piccolo e non ti puoi ricordare, che Napoli a marzo era già piena di bandiere, striscioni, era tutta incerottata d’azzurro e c’erano i cartonati di Osimhen, sì, quello con la mascherina, amore di zia, da tutte le parti, e vincemmo il campionato con un mese d’anticipo e mille punti sulla seconda che era talmente seconda che manco mi ricordo chi era. Mi pare la Lazio».
Un fatto epico, da raccontare attorno al fuoco, se mai ci sarà ancora chi racconta attorno al fuoco.
Ora no. Ora siamo all’ultima giornata, che hanno sballottato avanti e indietro, fino a decidere di metterla 23 maggio (che poi era meglio il 22, S. Rita, la santa degli impossibili, come diceva mia nonna, che parlava per proverbi come la tata di Ricciardi). Dicevo, quest’anno no. Siamo arrivati, chissà come, e chissà perché un piccolissimo punto sopra all’ultima giornata di campionato. E non abbiamo idea di come finirà perché non abbiamo idea di come ci siamo arrivati.
Vi ricordate quel vecchio adagio, attribuito all’entomologo Magnan, secondo cui «La struttura alare del calabrone, in relazione al suo peso, non è adatta al volo, ma lui non lo sa e vola lo stesso»? (In realtà non è il calabrone, ma il bombo, una specie di ape più chiatta e pelosa. Non c’entra niente con il Napoli, ma l’ho appena scoperto e ve lo dovevo dire). Dunque, il campionato di quest’anno del Napoli è andato più o meno così: fra Kvaratskhelia che se ne è andato a gennaio senza una vera sostituzione, un mercato di riparazione apparato all’ultimo secondo, infortuni pesanti il Napoli non poteva essere al primo posto. Eppure c’era. Poi è finito secondo. Poi l’Inter è caduta sotto i colpi di Orsolini (sempre sia lodato) ed è finito di nuovo primo. Di tre punti. Poi di uno.
Due anni fa il percorso era chiaro, splendido, adamatino, un’autostrada: quest’anno è una strada di montagna che nasconde il futuro dietro un tornante.
Però, alla fine, l’eccezione era il 2023, ma nel mondo normale succede così, nei campionati di tutto il mondo succede così, si può aspettare l’ultima giornata per sapere cosa succederà, fino all’ultimo minuto. E noi dobbiamo resistere, sopportare e supportare la nostra squadra calabrone. Che vola lo stesso e ci ha fatto sognare. E che, comunque vada, ha tutto il nostro cuore.
Forza Napoli.
(Immagine di copertina di Carlo Hermann/Kontrolab)