Dall’estate #a16 alla pax armata dello scudetto
«Il tifoso è amorale» dice ridendosela sotto il celebre baffone, seduto al tavolino di un bar del centro di Napoli, Sandro Ruotolo. Storico giornalista d’inchiesta ed ex senatore, stavolta in veste di tifoso. «Attenzione - precisa, sotto lo sguardo vigile degli angeli custodi che da otto anni lo scortano per le minacce ricevute dal clan dei casalesi, - non ho detto immorale, non sto esprimendo un giudizio negativo, ma amorale perché privo di morale, o disposto a sospenderla di fronte ai risultati». Non potrebbe spiegare meglio il mutamento di scenario dalla pacifica ma estesa e irruenta contestazione della scorsa estate targata #A16, al clima rilassato e il record di presenze di Dimaro, dove anche quest’anno si è svolta la prima parte del ritiro precampionato. Ma è pace vera o pax armata? Ci arriveremo.
Un anno fa, la protesta dei tifosi costrinse Aurelio De Laurentiis a rinunciare alla tradizionale passerella fra le montagne del Trentino. Blindato in albergo proprio nella location privilegiata delle sue esternazioni, dove una volta arrivò a eleggersi bontà sua anche «il vostro Cavani». I motivi della contestazione erano di varia natura. C’era la delusione per l’ennesimo sogno scudetto sfumato nel primo anno di Spalletti. C’erano le dichiarazioni dello stesso De Laurentiis sui tifosi «vessati e ingolositi». C’erano le partenze illustri di pezzi di storia del club come Insigne, Mertens, Koulibaly, Reina. E poi c’erano ragioni di lungo corso.
Il modello basato sul piazzamento Champions e qualche plusvalenza pesante era stato messo alle corde soprattutto dalla pandemia. Con il temporaneo azzeramento del valore dei cartellini e i mancati introiti del biennio fuori dalla Champions, il Napoli inanellava tre bilanci negativi di fila per un totale di 129,8 milioni di perdite. Sarebbe colato a picco, se non avesse accumulato un tesoretto significativo nel corso degli anni precedenti. La prudenza, considerata eccessiva anche da chi scrive, si rivela invece alla prova di fatti pur eccezionali e imprevedibili come il Covid l’ancora di salvezza del club.
Nella tempesta, quando De Laurentiis sembra definitivamente alle corde, con la grana della proprietà congiunta di Napoli e Bari da risolvere, l’hashtag #A16 sintetizza in maniera immediata ed efficace l’invito a scegliere la squadra pugliese e vendere il Napoli. Invece è proprio lì, in uno scenario da o la va o la spacca, che ADL fa una serie di scelte che si rivelano tutte azzeccate alla prova dei fatti. Il governo del pallone allunga fino al 2028 i tempi per la risoluzione delle multiproprietà. È una decisione che gli permette di respirare senza dover scegliere in fretta e furia. Rinnova la fiducia a Spalletti, pesca dal cilindro colpi come il georgiano Khvicha Kvaratskhelia e il sudcoreano Kim Min-jae, ma non si ferma qui.
Lasciando da parte in questa sede strutture, giovanili e organizzazione del club, una delle critiche più frequenti negli anni precedenti riguarda la rosa. Un buon undici titolare a cui fa da contraltare una qualità della panchina di livello decisamente inferiore, che non permette alla squadra di essere competitiva fino al traguardo finale. Nei due anni in cui il Napoli è campione d’inverno, dal mercato di gennaio arrivano calciatori come Grassi e Regini, Milic e Machach, che di fatto vengono a fare tappezzeria, confermando il giudizio di totale inadeguatezza che ne accompagna l’approdo a Napoli. Nell’anno della contestazione #A16, invece De Laurentiis sceglie di avere tre centravanti, comprando Raspadori a 35 milioni e chiudendo il prestito di Simeone.
Quali che siano i motivi, schiaffo morale, scatto d’orgoglio o le pressioni della piazza, nella sua gestione non c’è mai stata una panchina così lunga e importante, che si completa con un terzino sinistro di scorta come il nazionale uruguaiano Olivera e la scommessa di lusso dal Tottenham, mister 70 milioni Tanguy Ndombele. Scommessa purtroppo persa, ma ambiziosa. Ben altro peso hanno invece i 15 goal complessivi che i due attaccanti di scorta mettono a segno, alcuni dei quali davvero pesanti come in casa con lo Spezia, col Milan a San Siro, a Cremona, in casa con la Roma, senza dimenticare la Champions.
Il Napoli non solo vince lo scudetto, ma con una previsione di 360 milioni di fatturato stabilisce anche il suo record assoluto, grazie allo scudetto, ai quarti di Champions e a plusvalenze della stagione precedente. Con la ciliegina sulla torta di un utile stimato di 160 milioni. Altro record, stavolta della Serie A. Ancora più significativo se si considera che quasi sempre chi vince il campionato chiude il bilancio in rosso, con qualche rarissima eccezione. Invece il Napoli lo vince chiudendo con un utile stratosferico e dopo aver tagliato il monte-ingaggi da 109,7 a 69,72 milioni. A questo, va poi aggiunta la storica pace con le curve sul finire della stagione, che pone termine a un lungo periodo di contestazioni anche rispetto all’applicazione del Regolamento d’uso del Maradona che aveva ridotto lo stadio a non essere più il dodicesimo uomo in campo.
Pace fatta, quindi? No. Ci sono alcune considerazioni essenziali per comprendere a fondo lo scenario. Innanzitutto, nel calcio il credito è un bene estremamente volatile. Ne sa qualcosa Spalletti, il mister dello scudetto ma comunque oggetto di critiche dopo l’eliminazione dalla Champions per mano del Milan. Nel pallone, il credito si esaurisce alla terza mancata vittoria di fila. Poi, oltre questa amoralità di cui parla Ruotolo, ovvero il giudizio variabile e determinato dai risultati della grande maggioranza dei tifosi, a Napoli ci sono due fazioni distinte e separate in casa.
Sarà l’assenza di una seconda squadra cittadina, la natura oppositiva dei social il cui peso è sempre più grande anche nel calcio, lo stesso De Laurentiis che è stato spesso nel corso della sua gestione un personaggio divisivo, fra i suoi pretoriani e i suoi nemici è nella migliore delle ipotesi pax armata anche dopo lo scudetto. Lo sfondo è di nuovo una rivoluzione, stavolta non in campo ma nella conduzione tecnica e dietro le scrivanie. Via Spalletti che si è detto stanco, Giuntoli alla Juve coronando il sogno di una vita, via Sinatti, via Formisano. Il Napoli di Garcia, che al momento ha visto partire il solo Kim andato al Bayern alle condizioni previste dalla clausola, è in attesa di colpi sul mercato.
Trattenere Osimhen, che sembra avviato a un importantissimo rinnovo, sarebbe un colpo importante. Sono rari i casi di calciatori di livello superiore della nostra decaduta Serie A che si riesce a non far andare all’estero. Poi il club è chiamato a coprire la casella mancante del centrale di sinistra e a sciogliere definitivamente i nodi Zielinski, che pure sembra avviato al rinnovo, e Lozano che al momento è di fatto fuori rosa. Tornato al mittente Ndombele, servono rinforzi a centrocampo dove bisogna capire anche cosa ne pensa Rudi Garcia di Demme. Non sono dettagli. Un altro tifoso illustre, lo scrittore Maurizio De Giovanni, si pone il problema dei tempi, chiedendosi sui social se valga la pena aspettare ancora per spuntare qualche milione di sconto, visto che un calciatore ha bisogno di tempo per inserirsi.
Insomma, c’è un pezzo della tifoseria che non amerà mai Aurelio De Laurentiis perché vorrebbe una proprietà più ricca, capace di spendere e spandere sul mercato, costruire lo stadio, mettere in piedi delle giovanili vere, eccetera. Allo stesso tempo, ci sono quelli che fino all’anno scorso dicevano a chi voleva vincere di tifare Juve che, paradossalmente proprio dopo uno scudetto vinto, hanno esteso la fiducia in ADL oltre i confini della fede e della verità rivelata. Per ora la fragile tregua tiene. Pax armata all’ombra del Vesuvio e dello scudetto. In attesa che riparta il campionato e il giudizio sul Napoli lo dia il campo.