Barbie, un nome, un’epoca, un messaggio
Barbie chiama e le “ragazze” di tutte le età rispondono.
La bambola iconografica della Mattel ha fatto la storia, ha avuto il compito di spostare il modello, dalla “mamma” tutto fare a cui si educavano le bambine di ieri, mettendo loro in braccio l’eterno bambolotto da accudire, alla “Barbie”, la donna dell’attualità dagli anni Cinquanta in poi, che è qui non necessariamente per fare la madre e crescere bambini, ma per essere se stessa, per avere sogni e ambizioni, e talenti da sviluppare.
Noi donne nate dagli anni Sessanta in poi siamo cresciute con le Barbie.
E in ognuna di noi vive una Barbie. Un sogno inveterato di bellezza, felicità, ricchezza e mondi patinati.
Dentro i nostri cuori si nasconde una bambina che ha giocato con questa bambola, specchio di un modello a tratti inarrivabile, eppure depositaria di un desiderio, di un confine da mettere un po’ più in là, di un ideale che sbiadisce a un tratto quando il mondo con le sue richieste, incombenze e limiti lo appanna, trasferendolo nell’impossibile.
Ma è realmente impossibile coltivare i propri sogni?
Greta Gerwig col suo solito stile già ammirato in “Piccole donne”, sa parlare di donne alle donne e agli uomini, e anche in “Barbie” ci propone una lettura inedita, dove si interseca reale e immaginario, Barbie Land e mondo di tutti i giorni e dove anche le bambole prendono vita e scoprono cosa c’è dietro i modelli imposti dalla cultura di riferimento.
Per me, insegnante di Enneagramma, un antichissimo sistema psico-spirituale risalente ai monaci sufi, sistematizzato e portato in Occidente dagli psichiatri Oscar Ichazo e Claudio Naranjo, che raggruppa le tipologie umane in nove personalità dalle sfumature inconfondibili, è stato interessante veder rappresentato nel film, attraverso la protagonista, cioè Barbie stereotipo, un tipo preciso, caratteristico dei tempi in cui viviamo e soprattutto rappresentativo di una certa cultura americana, definito dall’Ennegramma delle Personalità come tipo 3.
La tipologia rappresentata con questo numero appartiene a persone che sin da piccole rinunciano alla propria verità e al contatto col proprio sentire profondo per identificarsi con il modello culturale di successo, vittime della società del consumo e di una società mercantile, direbbe Fromm, diventano prodotto da consumare. La loro ombra è la vanità, cioè adorano essere applaudite e convalidate per l’immagine iconografica che hanno scelto di rappresentare. Nell’Enneagramma questa tipologia è comunemente detta “la bambola” e paga il prezzo di essere completamente disconnessa da se stessa finché a un certo punto della sua vita accade qualcosa: una crepa, un bug di sistema che la porta a guardarsi finalmente dentro. E da qui parte un viaggio identitario che la conduce attraverso molti dolori e il contatto col suo evitamento più grande, cioè la paura di fallire, a trovare finalmente il suo nucleo essenziale e esistenziale.
Come non vedere in questa tipologia il modello culturale dominante a cui si rifanno tante donne, giovani e adolescenti di oggi?
Parimenti, nel film, la bambola “Barbie” grazie alla percezione di un suo difetto, impossibile da sostenere nel mondo impeccabile delle bambole, parte alla ricerca di sé e si ritroverà specchiandosi negli occhi di una donna reale che giocava con lei da piccola e che le racconterà l’epopea delle donne vere, il loro continuo compromesso in un mondo ancora maschilista che chiede alle donne l’impossibile, di fare un po’ le funambole tra questo e quello, perché se lei Barbie vive come modello stereotipato anche le donne vere sono chiamate a misurarsi con modelli inarrivabili, a disegnarsi sul territorio del perfetto senza sbavature, a ingoiare i propri disagi o i loro veri sentimenti che sono sul crinale, nell’esatto punto d’incontro tra bello e brutto, bene e male.
I compromessi non sono concessi alle donne e le donne non concedono a se stesse vie di mezzo, possibilità di stare su una definizione mediocre ma felice.
L’altra dinamica che la Gerwig esplora è la possibilità di incontro tra maschile e femminile e la sua lettura è confortante perché cerca di andare al di là dello stereotipo, suggerisce di empatizzare con il mondo maschile anche lui vittima di una cultura che annulla l’identità e impedisce il contatto con i reali sentimenti.
Barbie e Ken possono incontrarsi nelle loro reciproche mancanze, in quei fallimenti negati, nell’accettazione dello sbaglio reciproco, in un sentimento condiviso, in un’identità finalmente scoperta e portata avanti con coraggio.
Gerwig sembra suggerire a uomini e donne il segreto dell’autenticità, cioè trovare quella strada del cuore né giusta né sbagliata dove si vive fino in fondo il coraggio di esserci oltre ogni maschera, col conforto di sapere che esistono sogni ma si può vivere senza essere prigionieri dei propri sogni, incontrando l’Altro da sé con il segno di quella fragilità umana che ha il sapore della tenerezza.
Il dono è lì tra le mani di Ruth, l’ideatrice di Barbie che creando una bambola per sua figlia Barbara, in un atto di amore ha restituito alla figlia tutto il bello che avrebbe voluto per lei…
Sta a noi non diventare vittime dei sogni delle nostre madri.
Ma usare la natura dell’ideale e dell’immaginario, e la fede nel possibile come volano per trovare il nostro personale sogno e avere il coraggio delle proprie scelte, il cuore per andare avanti, la gioia di dare il proprio contributo al mondo.
E poi quando è il momento sparire senza rimpianto.
Parola di Barbie.
Anzi di Barbara.