Union Napoli, il muro e storie di napoletani a Berlino
Nel cielo sopra Berlino non ci sono gli angeli di Wenders. Solo nuvole che ci scaraventano addosso secchiate d’acqua da ogni parte già dalle prime ore del pomeriggio. Quindi pure ora, mentre facciamo il lunghissimo giro che conduce al settore ospiti dell’Olympiastadion attraverso un percorso pensato per evitare contatti tra le tifoserie. Infatti, non incontriamo anima viva provando con scarsa efficacia a ripararci dalla pioggia che continua a cadere.
Sono con Claudio e Leo, che hanno rispettivamente 43 e 18 anni. Claudio è napoletano e vive qui da dieci anni, fa lo psicoterapeuta. Leo è nato a Berlino ed è il figlio di un’amica napoletana che si è trasferita negli anni Ottanta, prima a Kreuzberg e dopo la caduta del muro a Mitte. Il padre è tedesco e stasera sarà dall’altra parte dello stadio a tifare l’Union. Leo invece tifa Napoli, però il pallone stavolta è solo un pretesto, l’occasione per incrociare le storie di napoletani a Berlino.
Leo fa l’ultimo anno di liceo, che qui in Germania si può frequentare andando a scuola, oppure con un’esperienza lavorativa che comunque dà diritto allo stesso diploma. «Vabbè, quasi» mi dice spiegandomi perché ha scelto di lavorare in un italiano perfetto ma dal curioso accento bergamasco perché suo cugino, un altro figlio della diaspora partenopea, vive lì ed è la persona con la quale ha da sempre rapporti più frequenti in Italia. La lingua e l’accento svelano sempre i sentieri percorsi.
Quando dico Berlino, io penso al muro. Feci appena in tempo a vederlo nell’estate del 1989, l’ultima in cui rimase in piedi. Il viaggio fu lungo e rigorosamente in treno come si usava allora. Arrivai per raggiungere un amico per una settimana, invece ci restai tre mesi e mezzo. Franz è il mio nome e vendo la libertà. Sapevo solo questo, grazie a Edoardo Bennato, prima di arrivare. Poi alla frontiera della DDR, dopo aver passato Norimberga, salirono a bordo due biondissimi Vopos, la Volks Polizei, la polizia del popolo, con gli stivali alti fino al ginocchio e il cappello di dimensioni monumentali in stile sovietico al centro del quale campeggiava la stella rossa. Forse pure la falce e martello, ma il tempo trascorso offusca i ricordi rendendoli incerti.
Da lì a qualche tempo, quel capello con la stella sarebbe finito esposto a due lire insieme a molti altri cimeli nei mercatini improvvisati dagli esteuropei finalmente liberi di emigrare. La grande svendita di un mondo accartocciatosi su se stesso anche sotto i colpi delle lusinghe occidentali. Laura, che è la mamma di Leo, mi ha raccontato i primi giorni successivi alla caduta del muro e il contrasto stridente fra chi arrivava dall’est affamato di consumo e di capitalismo a bordo delle piccole Trabant che scoppiettavano e facevano fumo, e una comunità ribelle come quella che viveva nel quartiere di Kreuzberg che era una delle capitali internazionali delle controculture. Uno spettacolo anche inquietante con masse enormi di persone che ritiravano i cento marchi di benvenuto per riversarsi poi nei supermercati, nei locali a luci rosse, o semplicemente vagavano ubriache per strada. Un gigantesco sommovimento di quelli che entrano a gamba tesa nella Storia con la esse maiuscola, con tutto l’inevitabile carico di contraddizioni.
Appena pochi mesi prima io però non sapevo niente di quello che sarebbe accaduto e perciò trascorsi moltissime notti su un balcone a Köpenicker Strasse, uno dei confini fra i due mondi, con lo sguardo immerso nello spettacolo surreale di un muro che spaccava in due la città come una ferita dai bordi irregolari. Fu lì che pensai che forse valeva la pena di dire Ich bin ein Berliner, suscitando col mio accento berlinese l’invidia feroce del resto del paese perché i berlinesi si sentono superiori agli altri tedeschi, più colti, intellettuali, raffinati e tutto il resto del pacchetto di una bizzarria multiculturale cresciuta fra il rigore dell’algida e sonnacchiosa provincia prussiana. Niente a che vedere coi bavaresi. I bavaresi sono i meridionali della Germania. Sono allegri, così si dice. Si riuniscono e bevono, mangiano e ballano. Sono i tedeschi che si associano ai luoghi comuni sui tedeschi, quelli della birra e crauti, dei wurstel e kartoffeln. Esattamente come i meridionali negli stereotipi legati all’Italia, però a differenza dei meridionali italiani i bavaresi hanno i soldi e non devono emigrare se non per scelta.
«Anche io però me ne sono andato per scelta» dice a un tratto Claudio, riprendendo il filo del mio discorso. «Mi ero laureato in psicologia e avevo cominciato a lavorare come giovane terapista in un ospedale napoletano» spiega per chiarirmi che la sua è stata proprio una scelta. «Solo che guadagnavo 400 euro al mese perché il dipartimento non aveva soldi, dovevamo comprare pure le risme di carta e i rimborsi arrivavano mesi dopo. Mi trovavo bene con i colleghi, mi piaceva il rapporto con i primi pazienti, però era Napoli ad andarmi stretta per i compromessi continui a cui ti costringe la città».
Claudio è del 1980 ed è cresciuto a San Gaetano, dove Pinotto diceva che ‘o tiempo è oro. Pantaloni baggy e cappellino da baseball. Un ragazzo della scena hip hop che faceva i graffiti, concedendosi al massimo qualche deroga all’ortodossia che veniva dall’America, col reggae che arrivava invece dalla Giamaica e trovava al Kinky di via Cisterna dell’Olio la sua ambasciata partenopea. In seguito, ha vissuto un anno in Africa e per qualche mese a Copenaghen. Poi l’amore, quante follie fa fare l’amore. Una storia che inizia, la sua compagna di allora che aveva già fatto l’Erasmus in Germania che decide di trasferirsi a Berlino, e lui che prende la palla al balzo lasciandosi il Vesuvio alle spalle.
«All’inizio è stata dura» racconta strizzando lievemente gli occhi come per mettere a fuoco i ricordi, o tenere a bada le emozioni che tirano fuori la testa dal sacco del passato. «Non parlavo tedesco, tagliavo tranci di pizza in una pizzeria a salario minimo e perciò dovevo lavorare un sacco di ore al giorno per mantenermi». La classica situazione di chi emigra all’estero senza conoscere o avere sufficiente dimestichezza con la lingua. Mille progetti in testa per cambiare la tua condizione, ma poi arrivi la sera a casa sfinito e pensi solo a riposarti e a dormire, mentre i tuoi amici pensano che stai facendo la bella vita.
«I primi anni sono stati di grande isolamento – continua Claudio sotto la pioggia che non accenna a fermarsi –. Quando non lavoravamo, io e la mia compagna stavamo sempre da soli. Su di lei poi, che a differenza mia parlava un ottimo tedesco, gravava anche il peso di tutte le questioni burocratiche. Era inevitabile che cominciassimo a litigare e altrettanto sicuro che dovevo darmi una mossa». È così che Claudio decide di iscriversi all’Integrationskurs, il Corso di integrazione gratuito pagato dallo Stato, dove ti insegnano la lingua. Otto mesi, tutti i giorni, con una ventina di persone di nazionalità diversa, per acquisire un manuale minimo di sopravvivenza nel paese dove ha scelto di vivere.
«Comincio ad acquisire dimestichezza col tedesco e vado a lavorare per mobile.de, un sito di compravendita di auto usate. Anche stavolta – spiega –, come era successo con le pizze, il fatto che fossi napoletano ha il suo peso. Mi spediscono dritto al dipartimento antitruffa. Prendetela come volete, sorridete come feci io o incazzatevi per il pregiudizio, ma nei test il mio punteggio era nettamente superiore a quello dei miei colleghi tedeschi». È così che Claudio diventa un segugio infallibile che scova aziende fantasma che vendono auto inesistenti e hanno una sede che non esiste, ubicata da qualche parte nel napoletano, esibendo certificazioni grossolanamente falsificate della Camera di Commercio.
Però non gli basta ancora, lui vuole fare lo psicoterapeuta, perciò continua a studiare il tedesco e nel 2016 presenta la tesi preparatoria per la scuola di psicologia e supera l’esame. «Lo sforzo più grande della mia vita – dice con un sorriso appena accennato ma compiaciuto, che intravedo sotto il cappuccio bagnato –. Quattro anni e mezzo di durata, 2.400 ore di servizio ospedaliero e 800 ore di incontri coi pazienti, tutto ovviamente in tedesco. Riesco però a entrare al Charité – Universitätsmedizin Berlin, un ospedale così prestigioso da essere citato spesso sui testi universitari che avevo studiato in Italia. Un sogno e mi danno pure mille euro al mese».
Oggi Claudio ce l’ha fatta. Ha la doppia cittadinanza, che qui si può chiedere dopo sette o otto anni, fa davvero lo psicoterapeuta e ha un sacco di storie da raccontare. Soprattutto quelle dei pazienti più anziani cresciuti nella Germania dell’Est che a distanza di trent’anni hanno ancora un’acuta nostalgia della DDR, per la vita comunitaria di allora paragonata alla loro solitudine del presente. «È chiaramente un punto di vista soggettivo, probabilmente condizionato dall’avanzare dell’età, ma c’è una storia che racconto sempre – mi dice con l’aria di chi attraverso una metafora semplice ma azzeccata sta per spiegarti un fenomeno complesso. – Un mio paziente una volta mi ha detto che a differenza di quello che accadeva nella DDR ora poteva mangiare una banana tutte le volte che voleva, ma che lui avrebbe potuto vivere benissimo anche senza mangiare banane».
È un aspetto di quella che in Germania chiamano Ostalgie, nostalgia dell’est, un fenomeno troppo complesso e contraddittorio per riportarlo in questa sede, ma di cui si può ritrovare una traccia significativa nel film “Good Bye, Lenin!”. A venti anni dalla sua uscita, i nostalgici ci sono ancora. Non ha invece nostalgia Claudio che esclude di tornare a Napoli. «Magari quando sarò vecchio – dice mostrandosi vagamente possibilista – ma voglio che mio figlio, nato due anni fa dalla relazione che da qualche anno intrattengo con la mia nuova compagna che è ungherese, cresca qui. Ci sono opportunità che a Napoli e in Italia non avrebbe. Poi si vedrà».
«Io invece verrei a vivere a Napoli domattina – dice Leo quando al termine del nostro lungo giro incrociamo finalmente il corteo degli ultras napoletani, che non hanno preso il treno della RER ma la metropolitana, e un largo sorriso gli si spalma in faccia. – Qui a Berlino si vive bene, so che economicamente e per il lavoro la situazione è migliore, ma ogni volta che vengo giù penso che mi sto perdendo il meglio della vita. D’inverno qua diventa un mortorio, si vive solo d’estate. A Napoli invece un ragazzo della mia età può stare sempre in giro, è facile fare amicizia, si mangia troppo bene, c’è il mare». Magari crescendo cambierà l’ordine delle sue priorità, ma intanto lui è convinto, nella trincea della nostalgia per un luogo dove non ha mai davvero vissuto.
Poi entriamo e il Napoli vince con un goal di Raspadori una partita sporca che allunga l’agonia di Rudi Garcia senza impedire che ricominci dopo dieci anni l’era Mazzarri. Ma pure questa è un’altra storia, che stavolta non c’entra niente con gli angeli di Wenders, ma nemmeno con i napoletani di Berlino.