Violenza sulle donne, investire nei centri anti-violenza e difendere i diritti
A pochi mesi dal caso di Giulia Tramontano, uccisa per mano del suo uomo mentre portava in grembo il suo bambino, succede di nuovo: una altra Giulia (Cecchettin), un’altra giovane donna viene brutalmente ammazzata e il principale indiziato è il suo fidanzato. Un altro efferato femminicidio, una altra vita spezzata, un altro caso che guadagna l’enfasi mediatica e come, già successo per altre clamorose vicende balzate alla cronaca, il Governo si affretta ad inasprire pene e a rafforzare i provvedimenti del Codice Rosso.
A pochi giorni dal 25 novembre, Giornata internazionale contro la violenza di genere, facciamo una riflessione con Lella Palladino, fondatrice della cooperativa sociale EVA nonché vicepresidente della Fondazione Una Nessuna Centomila.
«Il cuore del problema è la mancanza di risorse. Il Governo finge di avere a cuore il contrasto alla violenza sulle donne ma depotenzia i centri anti-violenza e non mette a budget le voci dedicate al Codice Rosso contenute nella Finanziaria», è la denuncia della Palladino, autrice, tra l’altro, del libro “Non è un destino. La violenza maschile sulle donne, oltre gli stereotipi”, che le è valso di recente il Premio Letterario Internazionale Mondello.
Una donna ogni quattro giorni viene uccisa nel nostro Paese. Il contatore dei femminicidi in Italia segna, in maniera inquietante, 83: 83 delitti che hanno come vittima una donna da inizio anno. Ha ancora senso celebrare il 25 novembre?
Ha senso perché è una celebrazione fondamentale, il problema è quello dell’enfasi mediatica che accompagna i casi di cronaca con un Governo che finge di avere la violenza sulle donne tra le sue priorità, mentre, sin da quando si è insediato, non ha fatto che tentare di smantellare o mettere in discussione diritti acquisti da anni, come l’aborto e il divorzio, sventolando la bandiera dei valori cattolici e della famiglia tradizionale, salvo poi smentirsi di continuo nei fatti. Sta facendo molto meglio papa Francesco, che, con piccoli gesti concreti, sta facendo cose dirompenti come aprire le porte della chiesa alla comunità trans, ora ha detto che le donne che subiscono violenza possono separarsi, mettendo addirittura in discussione il ‘sacro vincolo del matrimonio’. Questa politica, a ben guardare, sta depotenziando la lotta alla violenza di genere.
In che modo il Governo sta disinvestendo in questo settore?
Nel momento stesso in cui emana norme a supporto delle donne ma non finanzia i centri anti-violenza, le svuota di significato. Le misure del Codice Rosso contenute nella Manovra del Governo sono in uno stato di “invarianza finanziaria”, cioè non hanno una previsione di spesa. Parliamo di un Governo che sta tagliano sui servizi socio-sanitari e sul lavoro sulle donne, non investe nel sostegno alla genitorialità, tutti aspetti fondamentali per il raggiungimento di quelle pari opportunità che in Italia rappresentano ancora una chimera. Perciò, non ci dobbiamo meravigliare di questa violenza persistente, se il nostro Paese è scivolato dal 63° al 79° posto nell’indice mondiale che segna l’equità di genere, prendendo in considerazione elementi come il tasso di occupazione femminile e la presenza delle donne in ruoli decisionali. Finché le donne non avranno potere, discriminazioni e violenze nei loro confronti non potranno diminuire.
Che ne pensa della proposta del ministro dell’Istruzione di introdurre ore dedicate all’educazione affettiva nelle scuole?
Faccio notare che la proposta di introdurre l’educazione sentimentale tra i banchi è stata presentata 10 anni fa dall’attivista Celeste Costantino ma non è mai stata portata avanti, oggi sarebbe svuotata di significato. Siamo molto perplesse su cosa potrebbe determinare una iniziativa del genere con l’impostazione di questo governo di destra, che sta di fatto restaurando valori contro le donne, attaccando ad esempio la legge 194: l’educazione socio-affettiva potrebbe addirittura diventare uno strumento per parlare in maniera neutra di violenza.
Oggi, si parla di inasprimento delle pene, leggi più dure verso i colpevoli di femminicidi e una stretta sui controlli per evitare nuove morti. Eppure di norme ce ne sono già.
Basterebbe applicare la Convenzione di Istanbul, ma le norme non vengono applicare e chi dovrebbe farlo, parlo degli stessi addetti ai lavori, non è adeguatamente formato. Può succedere che gli stessi operatori di giustizia, sia maschi che femmine, siano portatori di stereotipi e pregiudizi. C’è come una resistenza culturale. Spesso le donne non vengono credute o vengono accusate di agire in maniera strumentale, per avere più risorse per i loro figli.
Un quadro davvero sconfortante. Ma cosa si può fare?
Nell’immediatezza servono provvedimenti seri capaci di dare risposte alle donne, valorizzare strumenti concreti come i centri anti-violenza e poi, come si dice senza però mai farlo realmente, spostare l’asse dalla repressione alla prevenzione ma questo significa cambiare i codici culturali nel profondo. Dal canto nostro, noi stiamo lavorando nelle scuole, sensibilizzando gli studenti e facendo informazione e formazione anche nelle imprese, perché è importante far capire che senza invertire i ruoli di genere, non si può cambiare rotta.