I Sillabari letti da Nanni Moretti. L’eredità dei sentimenti perduti
Nanni Moretti a Napoli.
Nanni Moretti nel cuore della città, al teatro Mercadante, che legge i Sillabari di Goffredo Parise.
Con la sua voce inconfondibile, a tratti tentennante come se a stento trattenesse una perenne domanda senza risposta sul vivere, con quel suo stile minimalista che si mette da parte per permettere alla vita di fluire, Nanni in punta di piedi arriva sul palco e dà spazio alle parole di Parise, quelle parole dei Sillabari, che lo scrittore pubblicò negli anni Settanta, quelle parole che messe insieme provano a tracciare un dizionario elementare dei sentimenti, resi scarni, ridotti all’osso.
E forse per far parlare i sentimenti, in un’epoca, oggi come ieri, dove si dà spazio all’ideologia spesso impoverita di empatia, bisogna ridursi minimi, quasi scomparire, far in modo che quei sentimenti si facciano strada tra la polvere e le parole della retorica, quelle pompose, quelle che non appartengono a Goffredo Parise.
Un microfono e lui, Nanni, solo sul palco, a raccontare le cose della vita, prosciugate dell’inutile, e a dare di nuovo vita a un mondo che da tanto non c’è più, quello dei valori, delle cose semplici, trama di un’umanità forse perduta, forse smarrita tra le pieghe e le piaghe di una società tecnologica.
Cose semplici, scarne, elementari come l’amicizia, nella storia di quel gruppo di dieci persone che si ritrovano a fare un’escursione in montagna e poi diventano amici e poi passa il tempo e poi si cambia e forse cambia tutto e forse poi non cambia nulla e si ritorna. O come in “Cinema” dove una specie di Mary Poppins, governante senza tempo e senza storia personale si ritrova a cinema per la prima volta non per accompagnare i bambini a vedere un cartone ma per vedere un film e in quel film e in quelle immagini di amore e di eros si smarrisce, o come in “Italia” dove si coglie lo struggente della nostra storia e sembra di rivedere i nostri genitori o i nostri nonni e quella loro vita scarna di gente semplice, umile, primitiva e primordiale, dove per comprendere l’odore della menta e del rosmarino bisognava diventare adulti.
Quell’Italia di altri tempi con quello stesso odore di perduto sembra venirci incontro, si fa strada, nel volto di lei, Maria, tonda ma non troppo, con quei denti così bianchi e in Giovanni, in quella loro storia di amore cominciata troppo presto, dove si “pratica la vita insieme” e “bisognava tacere per vivere”, la relazione era fatta di quei “movimenti comuni che si fanno in gioventù” e nella coppia non si litigava, non si poteva perché “ognuno pensava all’onore dell’altro” e non c’era tempo o spazio per pensare o desiderare un altro uomo o un’altra donna perché c’era quella “confidenza simile all’onore” inframmezzata.
Poi si invecchiava tacitamente, quasi in punta di piedi e lei la donna, Maria, così “visibilmente italiana” si vedeva vecchia e si copriva anche a se stessa.
La voce di Nanni Moretti sembra farsi piccola, si fa da parte per permettere a quel mondo antico di avere spazio e di parlare con le parole minime… E con la voce di Moretti scompare anche un po’ di quel nostro mondo vacuo e si scopre il tempo ed il ricordo.
“Libertà”, poi “Gioventù”, altre immagini strappate al Sillabario, le immagini di una donna le cui guance fatte di sangue raccontano il tempo intenso che non chiede sconti, quello che ancora sussurra giovinezza tra le righe, o ancora la figura dell’immagine muliebre in “Donna”, che sussurra il desiderio stretto di una donna di mezza età con figli e una strada già segnata, a ritornare indietro, a essere ragazzino come Peter Pan, senza il peso delle scelte familiari e l’ombra di un femminile curvo, quasi soffocato.
Nel teatro silenzio.
Tutti ad ascoltare le sillabe di quelle cose che forse danno un senso a un’intera vita: famiglia, giovinezza, sogno, ricordo, amore, memoria, valore, rimpianto…
Tutto ridotto all’essenza ultima, mentre una voce accennata, dubbiosa, senza alcuna ridondante interpretazione lascia che la parola nitida si faccia specchio e riflesso fedele.
Grazie Nanni.
Il sipario cala sulle note de “La Canzone dell’Amore Perduto”
“Ricordi, sbocciavan le viole
Con le nostre parole
Non ci lasceremo mai mai e poi mai
Vorrei dirti ora le stesse cose
Ma come fan presto amore ad appassire le rose…”
E noi restiamo attoniti come bambini rapiti dall’odore di una rosa lontana…
Non colta a sufficienza.