La Grande Magia e lo spettacolo della vita
La grande magia di Eduardo De Filippo, per la regia di Gabriele Russo, è in scena al Bellini e cattura gli animi. Lo spettacolo apre domande, quelle più nascoste che fatichiamo a formulare.
Capita così che negli anni Duemila, Napoli incontri di nuovo Eduardo e lo fa riportando sulla scena un’opera che riecheggia Pirandello e il suo teatro e calando nell’attualità le grandi tematiche della realtà e dell’illusione, della follia e del paradosso, tracciate lungo la via dell’amore.
È dell’amore che si parla, è lui il grande protagonista, un amore raccontato e calato nel teatro dell’assurdo, le ansie dell’amore, le domande e la difficoltà che abbiamo nel comprenderlo davvero. Calogero Di Spelta il protagonista, infatti, è una vittima d’amore o meglio delle sue ossessioni. Cerca sicurezze, si rifiuta di vedere la realtà e vorrebbe chiudere nelle gabbia di una scatola la sua illusione sull’amore.
Dall’altro versante gli fa da contraltare Otto Marvuglia, uno splendido e ben tratteggiato rappresentante dell’illusione. È lui il regista occulto, colui che detiene le chiavi del mondo di Calogero, colui che fa apparire e sparire la presunta realtà. Il Gran Demiurgo, una personalità semi divina e insieme truffaldina e ingannatrice.
È un mago, un illusionista, un “prestidigiatore” che grazie a un famigerato terzo occhio farà sparire in un soffio la moglie di Di Spelta insieme alle sue sicurezze. Ma cosa è reale?
È reale ciò che accade o sono reali le nostre paure, le nostre proiezioni, le nostre illusioni? Eduardo si interrogava su questo.
Marvuglia ha il potere di convincere con un abile gioco di parole il Di Spelta che sta partecipando a un grande gioco, che sua moglie, che in realtà lo ha tradito ed è scappata con un altro, è sparita perché lui, il marito, l’ha fatta sparire e ora è chiusa in una scatoletta minuscola, quadrata. Sarà Calogero a farla ritornare se aprirà la scatola, se crederà che sia lì dentro, cioè con la sua fiducia. Da qui parte il gioco, il paradosso, la metafora.
Che poi è il gioco della vita e ci conferma come nella migliore tradizione pirandelliana che l’esistenza è un grande teatro dove si recita a soggetto. Cosa è reale?
La domanda ci segue lungo tutto lo spettacolo, si mescola alla bravura degli attori, Natalino Balasso nei panni di Calogero e Michele Di Mauro in quelli di Marvuglia, e alla scenografia che rispecchia in pieno gli stati d’animo e il paesaggio interiore, e si trasforma da piena a vuota quasi a simboleggiare la rarefazione del mondo di Calogero man mano che finisce prigioniero del gioco e delle proiezioni della mente, fino all’epilogo surreale e disperato.
Di Spelta incarnando alla fine una follia simile a quella di Enrico VIII, uno dei personaggi chiave di Pirandello, rifiuterà la realtà perché ha compreso che la realtà non c’è mai stata, o se c’è stata è stata dopo sempre reinterpretata e sostituita dalla sua illusione.
Ciò che ormai riconosce come vero è solo il gioco di cui si sente prigioniero e che vorrebbe far finire. Ma se finisce il gioco in quale realtà precipiterà?
Calogero vuole mantenere chiusa in una scatola l’idea che ha di sua moglie, la costruzione che ha fatto di un presunto reale, le sue paure e il tessuto rassicurante che si è costruito grazie all’inganno di Marvuglia. Preferisce quello alla vita vera.
Infine quell’illusione/gioco che Marvuglia inscena è Vita più della vita perché permette di sopravvivere al dolore. Se Marvuglia incarna l’illusionismo della vita, Calogero interpreta l’incapacità a confrontarsi con la verità e insieme il desiderio di liberarsi delle maschere.
Come non riportare ai nostri tempi la trama partorita dalla mente geniale di Eduardo? Calogero racconta l’uomo contemporaneo indifeso rispetto al male di vivere e incapace di sostenere la verità su di sé e sul mondo. E Napoli si incarna in Marvuglia e nella sua capacità da cantastorie di creare meraviglie e di far vivere in un’illusione. Ma Marvuglia è anche la nostra società fantasmatica, virtuale e liquida. Che ci cattura in uno schermo e che ci fa credere che ciò che accade sia reale.
Infine l’inganno è la strada che percorriamo tutti. Ognuno di noi. Che non vede mai la vita così com’è ma vede ciò che vuole vedere, la Storia che si racconta.
Ce la raccontiamo per non essere sopraffatti dalla paura, dall'insicurezza, dal tradimento, dalla mancanza d’amore. Ce la raccontiamo per eternare la Bellezza che crediamo di vedere in certi momenti, per mantenere vivo un amore finito, per restare aggrappati a un tempo ormai concluso. Ce la raccontiamo per non vedere l’orrore della Storia, la grande Storia che ci attraversa col suo mare di informazioni e di finzioni. Ce la raccontiamo per non partecipare al delirio umano, per distaccarci dalla violenza e dall’inesistenza.
Meglio raccontarsela. Meno male che esiste Marvuglia. Che esiste Napoli cantastorie. Che esiste l’illusione da chiudere in una scatola.
Il 31 ottobre ricorre l’anniversario della morte del grande Eduardo. E noi napoletani lo ricordiamo così.