Morte accidentale di un anarchico al Bellini

Chiude la stagione del Teatro Bellini di Napoli Morte accidentale di un anarchico di Dario Fo e Franca Rame, per la regia di Antonio Latella.
Protagonista è Daniele Russo insieme con Caterina Carpio, Annibale Pavone,Edoardo Sorgente, Emanuele Turetta. Drammaturg è Federico Bellini, le scene sono di Giuseppe Stellato, i costumi di Graziella Pepe. Sound designer Franco Visioli, luci di Simone De Angelis, movimenti di Isacco Venturini e assistente alla regia Mariasilvia Greco. Lo spettacolo è una produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini. I costumi sono realizzati presso il Laboratorio di Sartoria del Piccolo Teatro di Milano - Teatro d’Europa.
Morte accidentale di un anarchico è una delle commedie più celebri di Dario Fo, e si ispira a un episodio accaduto nel 1921 quando un emigrante italiano «volò» fuori da una finestra del palazzo della polizia di New York. Così l’azione comincia in una questura, dove il commissario Bertozzo si trova a fronteggiare un matto, capace di spacciarsi per più persone, motore e filo conduttore dell’intera vicenda.
“La morte accidentale” a cui allude il titolo dell’opera è quella dell’anarchico Giuseppe Pinelli, precipitato da una finestra del quarto piano della questura di Milano nel 1969, in uno degli episodi più controversi della storia italiana del dopoguerra; dalla strage di Piazza Fontana, per cui Pinelli era indagato, ad alcuni dei terribili fatti che ne seguono, Dario Fo interroga con la sua opera non solo il caso giudiziario specifico, ma parte di un periodo storico ancora oggi difficile da decifrare e consegnare agli archivi.
«Con Antonio Latella e Federico Bellini stiamo perseguendo un intenso percorso di preparazione e di studio intorno alle figure di Fo e Rame, una vera e propria full immersion soprattutto in quello che il caso Pinelli rappresentò in quell’epoca ma in generale nelle violente contestazioni di quel periodo», spiega Daniele Russo. «In questo testo, oltre alla denuncia sociale, è evidente il manifesto teatrale di Dario Fo, del quale abbiamo il dovere di farcene carico facendo però attenzione a distaccarci completamente dalla sua figura, che è un unicum, col suo linguaggio ineguagliabile e con il suo impareggiabile stile nel fare un teatro politico. Il nostro intento è quello di riportare il testo a qualcosa di più vicino a noi: l’opera è infatti assolutamente attuale, sia come opera teatrale che come messaggio divulgativo, tant’è vero che parliamo del testo italiano ancora oggi più rappresentato all’estero.
Sullo sfondo della vicenda, un rapporto seriamente conflittuale con lo Stato, un dialogo/non-dialogo che ancora oggi persiste, e purtroppo non solo in Italia, per cui sono convinto che allo spettatore lascerà le stesse sensazioni di amarezza che lasciava all’epoca: in alcuni passaggi del testo Fo è addirittura profetico raccontando, con cinquant’anni di anticipo, quello che poi è successo».
NOTE DI REGIA a cura di Antonio Latella
Siamo i figli del lavoro
che lottiamo per il pan
e i superbi eroi dell’oro
supplicammo ognora invan.
Ma ci siamo alfin levati
dal servaggio secolar
e a riscossa abbiam chiamati
gli operai dai campi al mar
Abbasso le frontiere!
Su in alto le bandiere,
salutiam l’umanità!
Sorgiam contr’ogni tirannia
e combattiamo la borghesia!
Pugnam, pugnam, pugnam
per l’Anarchia!
Così inizia l’inno anarchico italiano e, con parole simili, si chiude la prima parte del testo del premio Nobel Dario Fo. Credo che tutta l’opera sia fortemente pervasa da uno spirito anarchico, un testo riscritto più volte in due anni e mezzo, che costò a Fo circa quaranta processi in ogni parte d’Italia, al punto tale che la maschera Fo arrivò a dire che la tournée dello spettacolo non poteva che essere scandita dai procedimenti giudiziari. È impossibile ricreare la spontaneità’ con cui Fo metteva in scena se stesso, sempre e solo se stesso, dando ai suoi spettacoli una forza unica e assolutamente irripetibile. La sua forza era una risata che riusciva a scardinare ogni argomento facendo diventare la risata stessa un atto rivoluzionario, dissacrante, ma soprattutto scandaloso. Fo non era mai altro da sé, il suo modo di stare in scena e recitare consisteva nell’abitare la scena come totale atto anarchico; nessun personaggio per nascondersi o da interpretare, ma un continuo tentativo di fare della non-interpretazione un fatto artistico persino pericoloso. Questa è l’eredità che ci lascia, difficile da emulare dato il nostro esser troppo borghesi e forse condizionati. Per me, questa regia è il tentativo di inseguire, e ricercare, il senso profondo di questa lezione di vita e di arte. Per fare questo è necessario che io stesso esca dai confini del conosciuto e provi ad entrare in nuovi territori, fatti anche da nuovi incontri come quello con il teatro Bellini e l’ attore Daniele Russo che assumerà il ruolo del Matto. Attraverso questa figura si aprono delle possibilità, il matto è sempre credibile perché resta sempre quello che è pur cambiando ruolo; il matto può destabilizzare e creare una folle e inaudita cascata di parole, ad una velocita tale che si fa fatica a stargli dietro, a seguirlo, quasi come se il testo di Fo fosse la rappresentazione verbale della caduta stessa. Le parole arrivano ad altezze vertiginose e alla fine l’equilibrio si perde e non si può che cadere, forse giù da quella maledetta finestra di quel maledetto palazzo milanese; si disse e si scrisse che si trattò, appunto, di una morte accidentale; stranamente le morti accadute così accidentalmente hanno più o meno sempre lo stesso copione, ed è questo che ci ricorda Dario Fo in questo testo scabrosamente realistico nonostante il gioco del teatro dell’assurdo. In uno dei verbali fu scritto che l’anarchico precipitò “velocissimo”; e come deve precipitare un uomo che cade dalla finestra? Si scrisse che l’anarchico gridò : “E’ la fine dell’ anarchia “, e si gettò. Ma Fo non vuole una fine, quanto capire la fine e lo fa con una ricerca spasmodica, quasi documentaristica, nonostante il mistero buffo del suo essere teatrante. Il commissario Calabresi fu ucciso, come sappiamo, e la verità stenta ancora a venire alla luce. Fo ci consegna una sua verità, quella del Matto, quella di chi se ne fotte della logica, delle convenzioni, della forma, andando a creare un testo multiforme e politicamente scorretto, un’opera cha fa dire al matto: “Gli anarchici sono molto conservatori/ è per questo che ammazzano i Re?/ Già, per imbalsamarli e conservarli per sempre”. Oppure”: Perdio siamo immersi nella merda fino al collo; ma è per questo che noi Italiani camminiamo a testa alta”.
Fo, con questo testo, parlava di scandalo; la sola cosa che vorrei riuscire a fare, graffiando con una risata da Joker, è quella di non dimenticare cosa e chi siamo stati. Provare a non cambiare la storia, ma tornare sul luogo del delitto non per attaccare coloro che non ci sono più, ma per comprendere e non ripetere gli stessi errori. Si può riuscire con una regia? Forse no, ma si deve provare.