Teatro San Carlo, José Luis Basso dirige il coro in capolavori di Brahms e Fauré
I capolavori romantici della letteratura corale di Johannes Brahms e Gabriel Fauré nell’ultimo appuntamento della Stagione di Concerti del Teatro di San Carlo prima della pausa estiva.
A dirigere il Coro del Massimo napoletano, venerdì 15 luglio 2022 alle 20, sarà José Luis Basso.
Primo brano in locandina Vier Gesänge per coro femminile, corni e arpa, op. 17 di Johannes Brahms (corni Ricardo Serrano e Salvatore Acierno, arpa Agnese Coco).
A seguire, ancora un lavoro di Johannes Brahms, Liebeslieder - Walzer per coro e pianoforte a quattro mani, op. 52, solisti Giuseppina Acierno e Luigi Strazzullo, e al pianoforte Roberto Moreschi e Vincenzo Caruso.
Infine sarà eseguito il Requiem, versione per soli, coro e organo, op. 48 di Gabriel Fauré, voci soliste Laura Ulloa e Giovanni Impagliazzo, entrambi allievi dell’Accademia del Teatro di San Carlo, con Vincenzo Caruso all’organo.
Dalla guida all’ascolto del programma di sala
di Gianluca D’Agostino
Benché fosse un genio assoluto della musica strumentale, o meglio un inarrivabile “sinfonista del pianoforte” (secondo la celebre definizione di Schumann), Johannes Brahms si interessò molto anche al canto ed al coro in particolare, accompagnato da strumenti obbligati o dall’orchestra, oppure anche a cappella. In ciò fu certamente influenzato dall’esempio sublime dei Lieder di Schubert o degli Oratori di Mendelssohn, ma ancor più direttamente dal suo amico, maestro e pigmalione Schumann, che gli suggerì varie volte di studiare anche la polifonia e le canzoni antiche e popolari (analoghe sollecitazioni poterono provenirgli anche da altre personalità parimenti afferenti al suo “circolo”, come Joachim, Hiller o Grimm, o magari collaterali ad esso ma pur sempre influenti, come l’archeologo-musicologo Otto Jahn). Fu tuttavia la sua personale esperienza di direttore corale, prima al castello di Detmold, poi alla guida del coro femminile nella “sua” Amburgo, negli anni 1850-60, a consentirgli di accrescere la confidenza con questo repertorio, di perfezionarsi nella tecnica corale e nella trascrizione dei “volkslieder”, e ad ispirargli pure delle soluzioni strumentali decisamente personali, che naturalmente risentono della temperie romantica di cui queste pagine sono permeate.
Una delle singolarità di Gabriel Fauré, nel panorama sia della musica francese fin de siècle, sia di quella europea, concerne proprio il suo atteggiamento verso la produzione sacra: dal 1870 (verso la fine della guerra franco-prussiana), quando divenne titolare organista della chiesa parigina di Saint-Sulpice e poi di quella di Saint Honoré, e ancor più dal 1874, quando passò a quella della Madeleine (sostituendo Saint Saëns), di cui divenne presto maestro di cappella, egli rimase legato fin quasi alla fine della vita all'ambiente religioso e chiesastico. Ciò non ostante, la sua produzione in questo settore è alquanto ridotta, includendo appunto il Requiem per soli, coro, organo e orchestra op. 48, opera di indubbia grandezza, e poco altro, comunque di livello inferiore. Parimenti anomalo è il fatto che per questa partitura, che a ragione molti considerano il suo capolavoro, benché alquanto “intimistico” e poco appariscente, egli tenne in scarso o nessun conto i modelli del passato. Passato inteso come tradizione, che certo Fauré - addestratissimo com’era alla più severa scuola del contrappunto e della polifonia rinascimentale e barocca - certamente non ignorava, ma che evidentemente voleva superare senza pagare un omaggio obbligato, forte del fatto che il suo orizzonte culturale era decisamente più ampio e vario, debitore del romanticismo tedesco così come di Wagner, ma poi insofferente anche verso lo stesso romanticismo, e quindi rivolto a Franck, a Saint-Saëns, ai simbolisti (piuttosto che agli impressionisti), e naturalmente al (neo)-gregoriano.