Narcotizzati dalla guerra, quando dovremmo mobilitarci per la pace
Di Sergio D’Angelo
Quando il mio edicolante di fiducia, porgendomi la mazzetta di quotidiani, mi chiede cosa ne penso dell’inasprimento della guerra in Ucraina cerco di scegliere le parole con la massima attenzione. Non amo il linguaggio sopra le righe e i toni aggressivi, tuttavia la mia risposta svela al netto dell’accortezza una preoccupazione che si trasmette istantaneamente sul volto del mio interlocutore.
Sono preoccupato, inutile negarlo. Non solo per i civili che restano esposti a privazioni e sofferenze delle quali non sono in alcun modo colpevoli. Non solo per il protrarsi del conflitto senza che si intraveda il pur minimo spiraglio diplomatico. Ma anche per il fatto che questo si sta oggettivamente e imprevedibilmente allargando.
Il sì strappato alla Germania da parte degli Stati Uniti per l’invio di carri armati all’Ucraina, il Regno Unito che definisce “pienamente legittimo” l’uso offensivo anche in territorio russo delle armi britanniche, la stessa offensiva russa che prosegue a tempo indeterminato e si completa con le minacce di stop alle forniture di gas, già messa in atto nelle ultime ore nei confronti di Polonia e Bulgaria. Sono tutti tasselli di una escalation sempre più preoccupante.
I social hanno regalato una nuova e straordinaria diffusione alle teorie del complotto, con l’idea portante che qualsiasi evento è frutto di decisioni infallibili prese da pochissimi nella proverbiale stanza dei bottoni. Io invece penso che molto spesso la storia si determini con le decisioni sbagliate, con l’assunzione spregiudicata di rischi senza tener conto delle conseguenze, del casus belli che come un fiammifero acceso fa deflagrare una situazione di tensione insopportabile.
Anche la guerra atomica è realisticamente una delle opzioni in campo, nella consapevolezza che se pure il conflitto dovesse essere contenuto al livello delle armi convenzionali, coinvolge così tanti soggetti e interessi contrapposti da determinare potenzialmente uno scenario di lunga durata dagli esiti imprevedibili. Resta il rammarico che avevamo provato a dirlo a Seattle, a Genova e altrove che quella globalizzazione selvaggia avrebbe prodotto una nuova stagione di nazionalismi e blocchi contrapposti.
Purtroppo non siamo riusciti a far diventare quella coscienza maggioritaria e uno dei risultati più preoccupanti è un’opinione pubblica narcotizzata nei confronti dei pericoli della guerra, con una condizione aggravata dal fatto che qualsiasi ricostruzione più complessa di quanto sta avvenendo viene automaticamente tacciata di appoggio a Putin. Perciò ci guardiamo, io e il mio edicolante, certi di non avere nessun interesse nella prosecuzione di questo massacro, ma anche ragionevolmente timorosi di non avere gli strumenti per fermarlo.
E tuttavia è questa, l’unica speranza: una coscienza pacifista nuova e diffusa a livello internazionale che fermi la guerra, questa guerra e quella che rischia di far sembrare questo conflitto una schermaglia di confine.