Infamous Offspring: gli dei e la loro progenie venuta male
Wim Vandekeybus vuole sdoganare la mitologia greca dalla polvere dei secoli, ed ecco qui Infamous Offspring, che il Bellini, il teatro più avanguardista di Napoli, propone fino a domenica 24 novembre.
Alla prima, in contemporanea con quella del San Carlo, il teatro era pieno, con personalità di rilievo (di cui non facciamo il nome, perché interessa lo spettacolo, non chi lo guarda) ad applaudire.
Per attualizzare il mito a Vandekeybus la danza non basta e, come in molti suoi lavori, il coreografo e regista belga incrocia i linguaggi, per rafforzare la narrazione visiva con il ricorso al cinema, alla recitazione, al disegno on stage.
Per chi non è abituato alle sue performance, quest’ultima opera può risultare un po’ complessa e la danza, sia pure ad altissimo livello, essere in qualche modo penalizzata se non scalzata del tutto dalla visione a maxischermo di Zeus (Daniel Copeland) ed Hera (Lucy Black) che litigano come qualsiasi coppia crudele nel terzo Millennio.
Lei è una donna nella terza età piena che non ha saputo risolvere pacificamente il conflitto con il marito, che oggi chiameremmo un “narcisista patologico”: pieno di sé, alla costante ricerca di attenzione, soprattutto femminile, e che sopravvaluta qualsiasi gesto nei confronti dei figli, perché lui, naturalmente, è il padre migliore del mondo.
Loro invece sono la “progenie infame” prigioniera di desideri e dannazioni, figlia di un amore malato e di tanti amori illegittimi e consumati male, nata storpia, tossica, violenta. E mentre la premiata coppia Zeus&Hera non scende mai dall’Olimpo, loro chiedono riconoscimento e amore danzando, urlando, facendosi reciprocamente del male. E se gli dei sono le proiezioni delle esperienze umane, quelle messe in scena da Vandekeybus sono le peggiori, e la progenie dell’Olimpo è nient’altro che un’umanità dolente, divorata da debolezze comuni come gelosie, paure, adulteri, che vengono amplificate dalla loro dimensione “di mezzo”: non dei, mai del tutto umani.
Bravissimo tutto il cast, a partire dalla contorsionista e pittrice Iona Kwney che interpreta Efesto, il dio storpio, rifiutato perennemente e purtuttavia sempre al centro di tutto, ma anche Paola Taddeo come Artemide, Rakesh Sukesh nei panni di Dionisio, Akim Abdoul Mlanao come Apollo, Maria Zhi Tortosa Seriano in quelli di un’androgina Callisto. Adrian Thömmes è perfetto come l’irascibile Ares e Cola Ho Lok Yee come Atena, che smania per essere la favorita del padre, come pure ricorda i morbidi tratti botticelliani Lotta Sandborgh che impersona Afrodite e Samuel Planas è un precisissimo Ermes. La musica di Warren Ellis (Dirty Three) istiga i loro corpi, fino a rendere la danza una frustata collettiva e le parole della poetessa Fiona Benson accompagnano quella che sembra un’orgia dello stare al mondo, dove il vaticinante Tiresia (interpretato dalla star del flamenco Israel Galvan) vestito d’argento e imprigionato in uno schermo, non riesce a recuperare il senso delle cose, ma a comunicare solo con il ritmo di oggetti percossi e il linguaggio del corpo. La performance è un continuo rimando dall’alto al basso e viceversa, con passi di danza e arrampicate su schermi-wall. Nel complesso, Infamous Offspring è un’allegoria stupefacente: si esce dal teatro storditi, incerti sul reale significato della visione, colpiti da tanto azzardo. Scomodare gli dei per dirci che, in fondo, siamo venuti giù proprio male.