Parthenope. O lo struggente profumo della giovinezza
Si spengono le luci e inizia l’ultimo film di Paolo Sorrentino.
Si spengono le luci e sai che non sei andato a vedere una “storia”.
Sorrentino è un eretico nel mondo del cinema. Lui non crea storie, suggerisce visioni che sono simboli e archetipi, ti fa viaggiare nel mondo della metafora e del poetico che diventa immagine. E poi c’è la sentenza implacabile.
La frase lapidaria che si imprime tuo malgrado.
Siamo abituati al mercato delle fiction, alle tante immagini sincopate che raccontano storie nel tutto già visto e già sentito.
Il diktat è il ritmo veloce e l’assenza di riflessioni personali altrimenti sei didascalico. Poi arriva lui Sorrentino col suo cinema di parole e di immagini senza storia che ti costringono a riflettere.
Il film nasce non per intrattenere ma per farti fermare a riflettere. E tu ti fermi, complice il silenzio di certe immagini vivide che fanno da contorno spiazzante.
Parthenope rompe gli schemi e Sorrentino è un visionario che offre infinite interpretazioni e suggestioni e apre il sipario all’inimmaginabile.
Così, seduti sulla poltrona di un cinema, non immagineremmo mai che la sua è una rivisitazione in chiave attuale di Intimation of Immortality di William Wordsworth.
L’ode alla giovinezza e alla sua perfezione. La celebrazione di quella fame di assoluti, che accompagna il tempo immortale, quando pensi di essere simile agli dei, e non sei stato ancora toccato dal dolore.
È allora che la vita è Seduzione, sembra suggerire il regista. Ti seduce perché sei vergine e tu seduci invece perché quella verginità vuoi perderla. Vuoi perdere l’innocenza per capire il mondo.
La vita si denuda così, nel corpo di Celeste Dalla Porta, nella sua innocenza che gioca con l’amore e con gli sguardi e rivela tutto il mistero racchiuso nel corpo femminile. È lì che incontriamo la vera sacralità, non nelle Chiese o nelle religioni.
Una sacralità così essenziale da unire insieme dei e demoni, nell’elementare seduzione di un corpo innocente rapito dalle pulsioni primordiali dell’eros, e che da quell’eros si fa attraversare.
È sacro quel corpo più di un santo, ci racconta la trama del film. Perché è il punto di contatto con l’Assoluto.
È il corpo di una donna che fa miracoli ma bisogna occultarlo, dice in un dialogo l’arcivescovo Tesorone. Perché la donna vuole rubare la scena a San Gennaro.
Ma poi il prelato al corpo femminile e al piacere si piega come in preghiera.
L’eros incontra il sacro sul sentiero della giovinezza e del mistero non svelato. Poi si separano e noi li perdiamo entrambi.
Il film mostra spietato tutto ciò che perdiamo alla soglia della maturità e quindi ciò che abbiamo perso oggi come società.
La giovinezza, il suo misticismo, la spensieratezza, la vita e il corpo seduttivo e arcano della donna. Quell’innocenza primordiale, quel contatto naturale col potere della seduzione che è Mistero ed è l’unico a potersi vestire con l’oro e la magnificenza del tesoro di San Gennaro.
Il mistero non rivelato è Parthenope che non è solo una sirena nata dalle acque, è Napoli.
Perdendo il mistero della seduzione e della giovinezza, mistero da vivere ma impossibile da rivelare e raccontare, abbiamo perso Napoli, città del sogno e del possibile.
L’abbiamo violentata, profanata e non capita.
Da Napoli si va sempre via. Per cercare un posto all’interno di un mondo morto che ha negato gli dei. Da Napoli si fugge in cerca di altri lidi, di altre città meno complesse, più seriali, più consone, che possano restituirci una narrazione più coerente.
Si va via da Napoli e dalla gioventù, carne viva del possibile.
Quella gioventù che un tempo abbiamo avuto e poi abbiamo dimenticato per dolore, incuria, noncuranza, indifferenza.
La gioventù.
La vedi uscire dall’acqua del mare di Napoli, e ha il volto di una Bellezza sfacciata, maliziosa e insieme innocente, un’innocenza che non conosce affanno.
La vedi nelle scene al rallenty in Galleria, riflessa nei corpi delle donne che passano come dee mentre ai lati ci sono i ragazzi che fanno da contorno e incantati si fermano a guardare.
È la Seduzione della vita.
I ragazzi di oggi abitano altre seduzioni meno carnali, più rarefatte che si consumano all’ombra virtuale della rete.
La generazione che racconta Sorrentino invece ha avuto corpo e da quel corpo è stata tradita, ha dichiarato la sconfitta.
Ma era già tutto previsto, come cantava Cocciante.
Il tempo immortale è il tempo degli dei, e noi non siamo dei, siamo solo uomini.
Quando il poeta Wordsworth scrisse l’ode all’immortalità pensava a questo.
Come lo pensava Elia Kazan nel film epocale e struggente “Splendore nell'erba”
Come lo raccontava Guido Gozzano quando scriveva della rosa non colta, unica che resta. O Carducci quando scriveva “Contessa cos’è mai la vita? È l’ombra di un sogno fuggente…”
C'è un tempo in cui si vedono cose che poi non vediamo più, in cui l'Indefinibile sembra più vicino e il Mistero del trascendente si fa vicino, così vicino che ci sembra di toccarlo nel corpo di una donna.
Sacra è la gioventù e sacro è il suo corpo. Chi lo comprende muore giovane perché come diceva Menandro è caro al cielo, appartiene agli dei.
Sorrentino parla di questa terra di confine indefinibile e non può farlo con una trama precisa o con il goniometro che fa quadrare storie che poi si chiamano fiction che poi reclamano movimento e accadimenti e magari un omicidio da svelare.
Non è questa materia che vuole raccontare, vuole svelare la trama non scritta dell’esistenza, il rimpianto, ciò che giace nascosto dietro il fondale e lo fa con la leggerezza di un sottinteso, con la metafora onirica, con il grottesco che cammina insieme allo splendore e nella congiuntura stretta dove si incontrano orrore e meraviglia.
Lo fa attraverso la Bellezza in fiore di un’adolescente, Parthenope, che racconta il paradosso del tempo immortale.
Si è felici in gioventù, durante l’epopea degli dei?
Questa domanda riecheggia in tutto il film condensata in quel reiterato “Parthenope a che stai pensando?”
Non siamo felici. Quando accade la vita, perché è solo lì che accade davvero - dopo è una pallida imitazione - noi non siamo mai felici!
Siamo assoluti, meravigliosi, simili agli dei, perché la giovinezza è un accordo totale con la solennità del sublime. Ma siamo Infelici.
Perché ogni sublime è disperato… è così estremo che è impossibile possa essere contenuto da una mente piccina, in cerca di appigli, risposte, limitazioni, dighe.
Per questo o ci distrugge o si distrugge per farci sopravvivere.
Non può esserci quiete né pace nella Bellezza. Né nell’eterna giovinezza.
Saremo sereni molto dopo.
Quando ci dimenticheremo la grandezza, il sublime e impareremo l’arte delle cose minime, il compromesso nella ruga che solca il volto.
Saremo soli perché non crederemo più nell’assoluto dell’amore.
Ma nello spaccato della leggerezza, dell'ironia, nel corpo della donna che scende dal piedistallo e accetta il ferire del tempo, accade il miracolo della serenità.
È il compromesso che fa “il miracolo”.
Non l’assoluto.
Parthenope sa, era già tutto previsto, che il tempo le porterà via tutto, ogni attimo di splendore, la stagione dell’amore, il sogno, il desiderio, la seduzione.
Le porterà via tutto… tranne la risata.
Ed è qui la sconfitta di Dio e la conquista degli uomini.