Enea? Un caso di maternità consapevole. La parola all’avvocato Alessia Schisano
Il caso del piccolo Enea, il bambino di circa una settimana di età abbandonato il giorno di Pasqua dalla nella Culla per la vita della clinica Mangiagalli di Milano, ha popolato le pagine dei giornali italiani e diviso l’opinione pubblica.
Fra chi ha sottolineato l’azione come gesto responsabile di una madre consapevole di non poter dare al figlio quanto avrebbe voluto e chi lo ha invece biasimato in quanto “inumano”, sono entrati nel vivo della questione personaggi del mondo dello spettacolo, esponenti politici e professionisti quali medici e assistenti sociali.
Approfondiamo i risvolti legali del caso con Alessia Schisano, avvocato esperto in diritto di famiglia e tutela di minori.
Lasciando da parte i giudizi morali, entriamo nel merito dell’azione da un punto di vista legale. Ciò che ha fatto la mamma di Enea è stato giusto o sbagliato?
Questa donna ha fatto sicuramente una scelta di maternità responsabile. Innanzitutto dal punto di vista della sicurezza del neonato, avvalendosi di un servizio pubblico messo a disposizione da una struttura sanitaria. La culla della vita è infatti un sistema provvisto di una culla riscaldata che azionando un sensore,invia immediatamente un segnale d’allarme alla terapia intensiva neonatale dell’ospedale. Il bambino quindi in pochi secondi giunge fra le mani di personale medico specializzato. Non sappiamo quali siano i motivi per cui questa donna abbia preso questa decisione – non necessariamente di natura economica - per cui sarebbe il caso di sospendere ogni giudizio a riguardo.
Cosa succede in seguito?
I sanitari allertano immediatamente il tribunale dei minorenni di competenza che, nel caso della regione Campania, sono quelli di Napoli e Salerno. In casi come quello di Enea, la procedura è molto snella: il tribunale nomina immediatamente un tutore che è in genere un avvocato, ma può anche essere un assistente sociale, dopodiché parte la procedura di adozione. In una prima fase il bambino viene dato in affidamento alla prima coppia in graduatoria presso una lista di cui è in possesso il tribunale che emana quindi un decreto di affidamento. Il periodo di affido dura uno o due anni, periodo durante il quale tutore e assistenti sociali compiono un’azione di monitoraggio al termine del quale si finalizza l’adozione.
Secondo la sua esperienza con minori e famiglie in difficoltà, perché questa donna ha preso tale decisione? Non sarebbe stato più facile lasciare il bambino nel luogo in cui ha partorito?
Sono stata più volte tutore di bambini abbandonati in ospedale per cui questo genere di casi li ho seguiti personalmente. Non abbiamo elementi necessari per rispondere esaurientemente a questa domanda. Potrebbe averlo partorito in casa. O, più probabilmente, lo ha partorito in una struttura sanitaria ma sentiva su di sé il peso dello sguardo delle persone presenti. Cosa avrebbero pensato medici, infermieri, le donne presenti nella sua stessa stanza, dinanzi alla decisione di abbandonare suo figlio? Chi come me si occupa di minori da tanti anni sa bene che la madre è la persona in assoluto su cui più grava il peso del giudizio degli altri. Eppure la legislazione in merito c’è e sarebbe sufficiente applicarla sospendendo opinioni proprie o la morale comune.
Lei si riferisce alla legge sul “Parto in Anonimato”?
Esatto. La legge sul parto in Anonimato, o “Maternità segreta”, deriva da un decreto presidenziale del 2000 e consente alla donna di partorire in ospedale con tutta l’assistenza necessaria ma di non riconoscere il figlio e di non apparire come “colei che lo ha generato”. I sanitari accolgono tale decisione e immediatamente allertano il tribunale dei minori di competenza. Fra l’altro il bambino abbandonato, secondo tale procedimento, una volta adulto ,non potrà nemmeno conoscere i nomi dei propri genitori, quindi l’anonimato è in tutto e per tutto garantito.
E in caso di ripensamento?
Su questo la Cassazione è chiara: puoi ripensarci finché il minore non viene dato in affidamento preadottivo. Come dicevo prima, la procedura di affido in casi come quello di Enea è molto snella per cui in tempi brevissimi il tribunale affida il bambino ad una famiglia che possa occuparsi di lui. Il tempo a disposizione per la madre naturale di ripensarci è quindi esiguo. Una volta avviato il processo di affidamento e adozione è molto difficile riavere il piccolo, anche quando si dimostra di esserne la madre naturale con il test del DNA. Ciò per il bene supremo del bambino che, sebbene neonato, inizia a relazionarsi con i genitori affidatari. Si cerca, insomma, di provocare al bambino meno traumi possibile.
E i padri? Ci sono tutele per loro che potrebbero, in alcuni casi, essere “vittime” di decisioni del genere?
Da una parte ci sono le leggi dall’altra c’è la vita reale. Si valuta caso per caso. Potrebbe effettivamente succedere che un padre sappia in ritardo di essere diventato padre, di essere ostacolato nell’esercizio della paternità. La legge tutela le madri quanto i padri ma in questo caso le motivazioni sono importanti: dove era il padre al momento del parto? dove era quando la madre ha abbandonato il figlio? Dovrebbe dimostrare di essere stato impossibilitato di presenziare al parto, giustificare perché era assente e perché non ha riconosciuto il bambino. I mezzi per esercitare il diritto alla paternità ci sono e ci sono i casi eccezionali. Ma la casistica tuttavia dice altro, ci dice che spesso sono le donne ad esser lasciate sole nel momento in cui concepiscono un bambino e che questo è uno dei motivi per cui decidono di non prendersi cura di lui.