Domenica, 24 Novembre 2024

Io come la mamma di Enea

“La mia storia è più comune di quanto non si possa credere. Crescere un figlio è un lusso che spesso non ci si può permettere. E non è solo una questione di possibilità economiche”.

Quando Elena (nome di fantasia) ha sentito della storia del piccolo Enea al telegiornale, mentre cenava con suo marito nella loro casetta in provincia di Caserta, ha fatto finta di niente. Intanto nella sua mente si era aperto un cassetto da tempo chiuso a chiave e i ricordi sono saltati fuori all’improvviso. Era il 2016 quando Elena, all’epoca trentaquattrenne, mentre era al sesto mese di gravidanza viene lasciata dal compagno dopo una convivenza di cinque anni. È così che il suo già fragile equilibrio mentale si spezza e al momento del parto la donna prende la difficile decisione di non tenere la bambina.

Quando alcuni giorni fa è esploso il caso del bambino lasciato nella “Culla della Vita” al Barbagalli di Milano, il giorno di Pasqua, Elena ha deciso che la sua storia andava raccontata.

Sono passati sette anni. Cosa ricorda di quel giorno?

Di quel giorno ricordo tutto. Ci sono tornata mille volte: in quel pronto soccorso dove sono arrivata in preda ai dolori e dove mi si erano rotte le acque, nella sala parto in cui ho trascorso le ultime tre ore attaccata a mia figlia, nella stanza in cui sono stata ricoverata due giorni, nel letto in cui ho preso, infine, la decisione. È stata una decisione sofferta ma l’unica che potessi prendere. Non avevo possibilità di scelta. Ancora oggi non me ne pento.

Perché è stata l’unica decisione possibile?

Perché amavo mia figlia. Sembra strano, ma ho deciso di abbandonarla proprio per questo. Perché la amavo. Ho vissuto tutta la mia infanzia e l’adolescenza con mia madre. In famiglia eravamo in due ma a me sembrava di essere in tre. Mia madre, io e il suo disturbo bipolare. Non avevamo altri parenti e mio padre non l’ho mai conosciuto. La malattia di mia madre è stata nella mia vita una presenza costante, quasi fisica. Si assopiva per un po’, poi succedeva qualcosa che la risvegliava e la faceva crescere. Infine scoppiava. Come un vulcano. Quando in età adulta ho iniziato a notare che assumevo comportamenti simili a quelli di mia madre e che spesso non riuscivo a controllarli mi sono spaventata e ho consultato uno specialista che mi ha diagnosticato la stessa patologia.

Quali erano i suoi timori?

Che potesse vivere ciò che ho vissuto io. Oggi le cose sono diverse: seguo una terapia farmacologica, ho un lavoro, una relazione stabile con un uomo che mi ama e mi supporta. Sette anni fa non era così. Avevo da poco scoperto del mio disturbo, il mio compagno mi aveva lasciata per un’altra e non avevo un lavoro. In quel momento la bambina era una delle poche cose belle nella mia vita, ma tenerla sarebbe stato un gesto egoista. E così ho rinunciato a quell’unica cosa bella.

Quando ha riferito della sua decisione al personale sanitario si è sentita supportata o giudicata?

Entrambe le cose. Il medico che mi ha preso il parto è stato comprensivo e mi ha fornito tutte le informazioni necessarie, mettendomi anche al corrente del fatto che in seguito sarebbe stato difficile tornare indietro ma, comunque, non ha cercato di farmi cambiare idea. Al contrario di diverse ostetriche e infermiere.

In che senso?

Più volte mi hanno esortato a ripensarci, dicendomi che in futuro me ne sarei pentita, che non sarei più riuscita a dormire la notte. Una mi ha addirittura chiamata mostro. Paradossalmente ho trovato più vicinanza dal personale medico di sesso maschile. Sembra assurdo, ma quando si parla di maternità le donne possono essere le peggiori nemiche delle donne stesse.

Oggi sua figlia ha sette anni. Cosa le direbbe?

 Le direi che il destino ha scelto per noi strade separate. Che la vita è fatta di occasioni. Io ho deciso di perdere la mia occasione di essere madre per consentire a lei di essere una figlia felice.

Author: nuovoeditore

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