La Madre, il documentario di Amalia De Simone al Giffoni Film Festival
Le donne possono avere un ruolo di educatrici alla criminalità o salvatrici in alcuni quartieri di Napoli: si muove su questa linea sottile, costantemente in bilico tra degrado e voglia di riscatto, il nuovo documentario della giornalista Amalia De Simone dal titolo “La Madre”, che verrà presentato il prossimo 29 luglio nel corso della 53esima edizione del Giffoni Film Festival.
Guarda l’intervista ad Amalia De Simone
Il lavoro, frutto di un attento lavoro giornalistico (contiene, tra l’altro, le intercettazioni vere utilizzate nelle inchieste della Direzione distrettuale antimafia di Napoli e quasi mai ascoltate), intende rappresentare uno spaccato di vita in quella parte del centro storico di Napoli, per anni ostaggio di degrado e camorra, a pochi passi dal museo Madre. Sfondo e protagonista, infatti, è la città, sempre in bilico tra l’abisso e la resurrezione, con “il mare che non la bagna”, come scriveva Anna Maria Ortese e come si legge nell’installazione artistica che apre e chiude il doc.
Autrice e regista di “La Madre”, Amalia De Simone è stata insignita dell’onorificenza di cavaliere al merito della Repubblica dal presidente Sergio Mattarella proprio per aver contribuito con la sua attività di giornalista di inchiesta alla lotta contro le mafie. Fotografia, riprese e montaggio sono di Simona Petricciuolo e della stessa De Simone.
Le musiche sono firmate dalla cantautrice Assia Fiorillo che ha composto la canzone “La Madre”, colonna sonora del documentario (testo scritto a quattro mani con la De Simone). De Simone, Petricciuolo e Fiorillo avevano già collaborato per la realizzazione del documentario “Caine”, con protagoniste sempre donne – in questo caso, erano le detenute di Fuorni e Pozzuoli - firmato da Amalia De Simone, andato in onda in Italia su Rai 3 e Raiplay.
Tra degrado e bellezza: il coraggio di una donna che “adotta” l’assassino del marito
Il doc fotografa quel ventre di Napoli, patrimonio dell’Unesco, in cui si sono affrontate bande ferocissime di ragazzi seminando terrore e morti innocenti. In questi stessi luoghi c’è un portone giallo enorme che è quello di un museo di arte contemporanea che per un certo periodo, grazie ad una presidente attenta al contesto, Laura Valente (oggi non più in carica) è rimasto sempre aperto per la gente, quella stessa gente che fino a poco prima ignorava che lì ci fosse un museo.
Si tratta del “Madre”, con di fronte una piazza di spaccio, poco più avanti l’officina dove fu freddato un innocente, con alle spalle il “vicolo della morte” e le strade delle cosiddette “stese”.
Ma cosa succede se i figli, i fratellini, le ragazzine del quartiere vengono accompagnati dalle madri al museo per passare le giornate? Succede che si aprono nuovi sguardi. E così una madre, Lucia Di Mauro Montanino, che ha avuto suo marito assassinato da alcuni minorenni e ha avuto la forza di perdonare e “adottare” uno di questi ragazzi, per la prima volta davanti a una telecamera racconta la sua storia.
Tra quelle quattro mura, ragazzini costruiscono scatole fotografiche e scattano immagini poetiche con un figlio del quartiere diventato fotoreporter; costruiscono oggetti con il designer internazionale Armando Milani; fanno le pizze con Ciro Oliva del quartiere Sanità; ascoltano storie su integrazione e valore della diversità. Tutto questo si intreccia con le storie feroci che accadono intorno.
Quelle di cui parlano anche le voci intercettate: ci sono madri che ordinano agguati e per la prima volta si sentono le parole di ragazzi che commentano l’assassinio di un altro ragazzo innocente, Genny Cesarano. Le frasi usate per descrivere l’accaduto sono scandite da risate, parolacce ed espressioni di una superficialità perfino troppo spietata e disarmante.
Il documentario ruota intorno alla parola “madre” che è il nome del museo ma sono le madri che come abbiamo visto, possono essere istigatrici del male o via di salvezza per i propri figli e comunque le donne che spesso hanno in mano le sorti di certi quartieri.
C’è anche la storia di Anna, appena uscita dal carcere dopo 8 anni. Fuori ha ritrovato un figlio cresciuto senza di lei (e per questo salvo) e ha affrontato la perdita di un figlio dato in adozione dopo il suo arresto. Nel suo quartiere i bambini confezionavano dosi di droga e spacciavano. Suo figlio aveva due anni quando lei vendeva bustine di cocaina nel suo basso per conto del clan.
La “legge” l’ha punita per tutti gli altri ragazzini messi sulla strada. Infine, l’ultima parola spetta ancora ad una donna, una che sarà madre e che (da quanto emerge dalle intercettazioni) invita il suo compagno, membro di un clan di giovanissimi, a provare a vivere una vita normale, a cercare un lavoro onesto, a uscire dalla spirale di violenza e paura.