Il Dalai Lama, il bambino e l’informazione decontestualizzata
Nell’idolatria del sé che caratterizza i nostri tempi si fraintende completamente la laicità del buddismo che non prevede iconografie, il cui cuore è una pratica attiva dove l’esercizio intellettuale viene sostituito da un fare quotidiano e da un allenamento a uno sguardo rilassato e aperto sul vivere.
Fa notizia anche nella comunità buddista napoletana lo “scandalo” mediatico che ha assalito il Dalai Lama, ripreso mentre avvicina un bambino indiano e mentre gioca con lui mostrandogli la lingua, diventato protagonista, suo malgrado, di un video virale che scandalizza i benpensanti.
Ma di che cosa si sta parlando in realtà? Il Dalai Lama è un capo religioso carismatico che chiama a sé i bambini, come faceva Gesù, nella sua modalità giocosa e fuori dagli schemi, caccia fuori la lingua, dice qualcosa e finisce nel gioco perverso dei social, dove viene estrapolato e decontestualizzato un particolare, poi viene ingigantito, poi ancora letto in modo univoco e parcellizzato, in genere il peggiore possibile e infine c’è il capestro, la condanna, la sentenza senza appello.
Decontestualizzare un particolare e ingigantirlo è il nuovo modo di fare informazione sui social. Poco importa che si tratti di una figura che si è adoperata da sempre per diffondere messaggi di pace, che col suo fare ironico e scanzonato di chi conosce la preziosità della leggerezza abbia insegnato a tutti un modo più rilassato e accogliente di stare al mondo, che abbia trasmesso a chi l’ha incontrato il fulcro essenziale degli insegnamenti del buddismo tibetano, che per chi li conosce e comprende raccontano dell’innato rispetto per l’altro, del cuore trasparente e vacuo intriso di saggezza, e della capacità di andare oltre e di non prendere mai nulla troppo sul serio, men che meno se stessi…
La mannaia del pensiero dicotomico che infanga non conosce complessità e profondità.
Nella visione binaria dei buoni e cattivi non sembra vero decontestualizzare, desacralizzare e smitizzare un simbolo religioso per poter poi far salire sul podio il proprio sé finalmente libero dal mito. Ma il mito non è il cielo lontano da cui prendere distanze, è la narrazione della propria sacralità, cioè il rispetto della propria dimensione spirituale che si alimenta di apertura e spazio, di un socratico so di non sapere.
Quel so di non sapere che per esempio, permetterebbe la conoscenza di altri usi, costumi e retaggi culturali.
In Tibet il modo tradizionale di dare il benvenuto è tirare fuori la lingua, tradizione che risale al IX secolo quando il malvagio re tibetano Lang Darma si diceva avesse la lingua nera. Quando morì, il popolo del Tibet era talmente impaurito che potesse tornare a reincarnarsi, che iniziarono a salutarsi tirando fuori la lingua per provare che non avevano la lingua nera e quindi non erano il Lang Darma reincarnato.
Da allora è usanza salutarsi in questo modo.
Sono tante le letture che si possono dare a un gesto nel momento in cui viene “contestualizzato” e quindi restituito alla sua integrità e trasparenza fuori dai tessuti proiettivi, ma è interessante una riflessione culturale.
Assistiamo a una sorta di ritorno di “caccia alle streghe” collettiva, magari strumentalizzata politicamente che fa leva sul serpeggiante malessere sociale e che porta a cercare colpevoli ovunque e a intrecciare narrazioni.
Il paradosso, un tempo chiave soprattutto nella cultura orientale di comprensione e di apertura, viene aborrito, sostituito da una cultura monotematica che cerca sempre assoluti e verità rivelate.
E pensare che i monaci Zen risvegliavano il discepolo con un Koan Zen cioè un’affermazione o una domanda paradossale che non ha risposte e porta a superare la mente razionale, e così introducevano l’allievo a un altro modo di rapportarsi all’esperienza…
Ma anche nella nostra cultura, ad esempio, insieme all’approccio scientifico c’è un altro tipo di approccio che può essere utile, quello legato al pensiero laterale.
Qualche tempo fa nelle scuole di comunicazione circolava un video particolare sulla complessità del reale. All’inizio si vedeva in primo piano un uomo che correva… E qui la mente subito si apriva a un’interpretazione, un uomo corre, scappa da qualcosa? Il campo si allargava e appariva un’auto della polizia che sembrava inseguire il corridore… La mente decodificava… sarà un ladro? Poi la visuale si allargava ancora e appariva un uomo che stava per gettarsi giù da un palazzo e l’uomo in corsa frattanto si fermava e gli faceva cenni… Quindi di nuovo la mente proponeva soluzioni: l’uomo che correva e l’auto della polizia andavano a salvare l’uomo che stava per suicidarsi?
Infine il campo si dilatava ancora di più e appariva un Ciak si gira, con un regista in prima fila che assisteva alla scena. Si stava girando un film e qui la mente si fermava in un black out.
Se avessimo decontestualizzato un solo particolare avremmo visto altro, un’interpretazione del tutto soggettiva di qualcosa su cui ci sfuggiva lo sguardo d’insieme. È ciò che accade quasi sempre quando si ferma un solo particolare, si fotografa e poi si costruiscono mondi che, come in uno specchio, riflettono paure e desideri, fantasmi e luoghi comuni di chi dietro uno schermo guarda e proietta…
È la nuova caccia alle streghe.
Un nuovo perverso modo di accendere roghi e di cancellare la saggezza del molteplice.
A Napoli c’è l’Istituto Lama Tzong Khapa, sede territoriale dell’Istituto di Pomaia, che richiama ogni giorno molte persone anche di religioni diverse, affascinate da un diverso modo di stare al mondo che va molto oltre la religione.
Attraverso la meditazione e i momenti conviviali si fa amicizia con la mente spaziosa che permette l’apertura e la sospensione del giudizio.
Pratica utile in questi tempi di passaggio dove persino una figura carismatica come il Dalai Lama finisce nel mirino della manipolazione, del giudizio e della denigrazione social.