Napoli, un’Emozione antica
Il riscatto delle emozioni parte da qui.
Da una squadra, da una città e da un sentimento popolare che rompe ogni schema.
È trasversale, democratico, contagia vecchi e bambini, uomini e donne, non conosce razzismi, colori politici, ideologie.
È qualcosa che unisce in un mondo dove suonano grancasse divisive da ogni parte.
È il sorriso che contagia, la mano che si tende, la spinta che resta per coltivare un’umanità sempre più scolorita.
Nel mondo virtuale, nella società dei consumi, nella cultura dell’efficienza, nell’universo tecnologico dove parliamo con Alexa e con Google, dove è comune la categoria degli haters cioè gli odiatori seriali, dove su Tik Tok le adolescenti vendono la propria immagine sessualizzata e l’uomo somiglia sempre più a una macchina, c’è un gioco che ruota attorno a un pallone e che ha il potere di far ritornare fratelli.
Ricorda le antiche battaglie dell’Iliade, riesuma la necessità dell’Eroe, esalta gli animi, sembra riecheggiare le antiche esperienze iniziatiche dove l’uomo si preparava attraverso varie prove a diventare adulto e a vivere fino in fondo le sfaccettature dell’animo umano.
È interessante anche la simbologia legata al pallone, cioè alla sfera, al cerchio.
Non è un caso che i maghi avevano una sfera magica, che è la rappresentazione del cosmo e del suo potere.
La sfera è la rappresentazione del tempo ciclico, dell’eterno ritorno, dell’Uroboro, cioè il serpente che si morde la cosa, senza inizio, né fine, emblema del tempo immortale.
Ogni raffigurazione simbolica del sacro è un cerchio, il mandala o il fiore della vita è un cerchio, e lo zero è un numero magico che rappresenta l’Oltre e che dà potere.
È il simbolo della profondità dell’utero di Nut, il grembo cosmico.
È perfezione grafica, emblema del Sole ed è insieme Nulla e Tutto.
Il cerchio nello Zen è illuminazione, nel Taoismo è vuoto assoluto, nel buddismo è vacuità piena, nella Kabbala è “Ain” fonte di luce, per Pitagora è la forma perfetta che contiene la monade.
Non è un caso che oggi il rito del calcio, perché si tratta di una vera e propria ritualità popolare che ha preso il posto delle processioni religiose, ha il potere di unificare come un tempo la preghiera.
Ha il potere di ridefinire l’identità umana, il senso della gruppalità che un tempo era incarnato dalla politica e dalla religione.
Riempie i vuoti lasciati dalle forze unificanti delle grandi assenti, identità sacra e identità sociale, ridisegna il patriottismo inteso come elemento di appartenenza, racconta il mondo del cuore dove c’è spazio per il diverso, dove non c’è giudizio per l’eccesso e dove l’apollineo e il dionisiaco camminano a fianco.
All’ombra dello Stadio ci si ritrova come in Chiesa, a venerare gli idoli che hanno infiammato gli animi, gli eroi di oggi.
E il simbolo della città e di questo rito è lui, un ragazzo povero venuto dalle favelas che ha portato ovunque la storia del bambino dionisiaco magico, toccato dal dio, che con la “mano de Dios” faceva qualcosa di più che rendere possibili i sogni..
Quei sogni lui li creava.
Faceva diventare l’Olimpo più vicino ai mortali.