Martedì, 03 Dicembre 2024

Quei bravi ragazzi… che uccidono

Una donna giovane viene uccisa.

Dal ragazzo con cui aveva avuto un rapporto. Un ex fidanzato.

Un bravo ragazzo, così viene definito.

Uccisa come se fosse la cosa più naturale del mondo, una cosa che può accadere, il normale tubo di scarico di una rabbia, di una frustrazione, di un dolore.

Uccisa a coltellate nel cuore di una provincia ricca e borghese, da qualcuno che poi ha cercato di occultarne il cadavere.

Sembra un film. Non lo è.

È storia di ordinaria quotidianità.

Giulia. E prima di lei tante altre. Chi uccisa con l’acido, chi a coltellate, in una specie di fiction dell’orrore dove sembra essersi smarrito il confine tra reale e irreale, dove sembra di essere a cinema…

Una sorta di omologazione filmica, di Hunger Game dove uccidere è qualcosa che può succedere, dove se mi rifiuti o mi lasci ti accoltello, o ti deturpo, come se fossimo degli avatar di un Metaverso. E non c’è colpa, né responsabilità.

Ma Filippo era un bravo ragazzo… Sono tutti bravi ragazzi….

Figli di un mondo consumistico dove vale la regola dell’intrattenimento non stop e della iper semplificazione e guai a porsi domande, a fermarsi a riflettere, a comprendere il fine e il senso di ciò che si agisce in prima persona.

Bravi ragazzi perché adattati, svuotati d’anima. Replicanti come le emoticon sul cellulare, robot conformi di una società malata. Svuotati di quella scintilla di spirito, di quel fil rouge che separa il bene dal male, e quindi pronti a tutto, educati alle regole di Tik Tok e a quelle degli haters, degli odiatori seriali che vomitano quintali di veleno sui social, dove pigi un tasto e fai qua qua.

È davvero solo una questione uomo/donna?

Io rifletterei sulla depauperazione umana, frutto di una società dove tutto è stato volgarmente esasperato, ridotto a screenshot e a selfie, e dove si è perso completamente il fondamento di quella comune umanità fatta di coscienza di sé e di consapevolezza.

Stiamo vivendo il frutto di decenni di spettacolarizzazione selvaggia.

Del sentimento privato portato in scena per solleticare gli istinti primordiali degli spettatori, del dibattito ideologico sul nulla, del corpo usato come lasciapassare simbolico cattura consensi.

E ciò che colpisce è l'ordinaria violenza quotidiana che anima il talk show perenne della società del post capitalismo. Violenza nei rapporti elementari, violenza nelle risposte che dovrebbero animare un dibattito, violenza in Tv, violenza sui social, violenza nell' imposizione del proprio modo di vedere il mondo, violenza nell'essere gratuitamente trancianti, nel calpestare l'altro per pura esigenza di essere visti e risaltare, per avere un like, per dimostrare a qualcuno di avere ragione.

Assistiamo a una deprivazione umanitaria frutto di anni e anni di kitsch e di trash che hanno eroso tutto ciò che potrebbe chiamarsi coscienza.

È l’emergenza coscienziale che rende le persone robotiche e la reazione meccanica, priva di vita.

Urge una riflessione collettiva che consideri il ritorno alla sacralità, una sacralità non religiosa, ma laica. Quella celebrazione del senso del sacro a partire dalla propria persona, che fa sì che si restituisca significato al gesto e quindi valore e quindi spessore e quindi responsabilità.

Non sto parlando di un’imitazione etica o di una cultura apparente al politically correct svuotato di senso perché omologato, ma di un ritorno all'umanità in senso profondo, di ciò che ci rende persone e non oggetti, e di quel senso di empatia fondamentale che gli antichi chiamavano pietas.

Nelle scuole non serve un'educazione alle emozioni ma un’educazione alla coscienza. Una sorta di recupero dell’anima.

Bisognerebbe restituire coscienza alla società, educare i ragazzi al senso e al significato sacro del vivere e alla responsabilità del proprio stare nel mondo.

Serve un’educazione alla verticalità e alla profondità che insegni ad assumersi la responsabilità del dolore, che porti i ragazzi a confrontarsi con la verità del vivere, con l’impegno dell’esserci, con la realtà della morte e quindi della fine delle cose, col naturale up and down degli stati d’animo. Basta divertimentifici, fughe dalla vita, surrogati, droghe virtuali, e assenze da quel radicamento umano fatto di concretezza, prassi e coscienza, quel tesoro naturale che ci hanno consegnato i nostri avi, che traevano dalla terra la forza e la radice identitaria.

Ci vorrebbe una presa di coscienza collettiva che prenda atto del fallimento culturale e del degrado formativo.

Di cosa produce quel modello imperante di Padre televisore e Madre cellulare/web che hanno sostituito la reale presenza affettiva.

Se non ci rendiamo conto che genitori completamente carenti dal punto di vista coscienziale che danno in mano al figlio di tre anni un tablet e a loro volta vegetano su un cellulare, fanno sì che quel bambino da adulto sviluppi reazioni robotiche senza il minimo livello di coscienza…

Se non comprendiamo che famiglie che non mettono limiti e confini ai figli perché disinteressate o prese dal virus delle perenne adolescenza, non potranno restituire ai figli nulla più che deserto e disperazione…

Se non ci prendiamo la responsabilità che una Scienza priva di Coscienza che rende l'uomo un algoritmo tecnologico, produce spirali di violenza/incoscienza su piccola e larga scala… Sarà difficile uscire dal tunnel di quell’emergenza umana che viviamo quotidianamente.

Chiara Tortorelli
Author: Chiara Tortorelli
Creativa pubblicitaria, editor e scrittrice, vive a Napoli dove inventa nuovi cultural life style: come presentare libri in maniera creativa e divergente, come scrivere i libri che ti piacciono davvero, come migliorare la creatività e il benessere personale con metodologie a metà strada tra stregoneria e pensiero laterale. Il suo ultimo libro è “Noi due punto zero” (Homo Scrivens 2018). Cura per Napoliclick la rubrica “La Coccinella del cuore”.

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