Sabato, 22 Febbraio 2025

Chi vuole può? La trappola del successo e il peso del fallimento

“Chi vuole, può”: quante volte abbiamo sentito questa frase, ripetuta come un mantra nei discorsi motivazionali, nei post sui social media e nei messaggi di incoraggiamento tra amici oppure come frase ad effetto rivolta ai nostri figli? 

È un'espressione che promette potenzialità illimitate; ci suggerisce che la volontà e la determinazione possano spostare le montagne. 

Vuoi fare la modella? Se vuoi, puoi.

Vuoi diventare un ingegnere informatico? Se vuoi, puoi. 

Ma guai a dire che per diventare modella è necessario essere alte almeno un metro e settanta e che per fare l’ingegnere informatico non basta essere appassionati di videogiochi. 

Dietro il “chi vuole, pùò” si cela un'ombra profonda e inquietante, un peso che può diventare insopportabile, soprattutto per i più giovani. 

La recente tragedia di Nunzio Iervolino, un 27enne di Poggiomarino, ci costringe a riflettere su quanto possa essere pericoloso questo messaggio. 

La sua vita, interrotta in modo tragico e inaspettato, è un campanello d'allarme che non possiamo, non dobbiamo ignorare.

Nunzio frequentava la facoltà di Economia e Management a Fisciano, ma la sua iscrizione sarebbe decaduta nel 2023 poiché, da due anni, non aveva sostenuto esami. 

“Scusatemi”, ha scritto nel suo ultimo messaggio prima di lasciarsi cadere nel vuoto: un addio che risuona come un grido di aiuto inascoltato. 

Una frase che invita a chiederci tutti: scusa di cosa, Nunzio? 

Perché qualcuno dovrebbe scusarti? 

Dovremmo scusarti perché non hai superato degli esami, perché non avresti indossato la corona di alloro, o perché nessuno ti avrebbe potuto chiamare “dottore”? 

Nunzio, scusaci tu. 

Scusaci se ti abbiamo fatto credere che un fallimento accademico fosse inaccettabile, fino a diventare un peso insopportabile, un fardello capace di schiacciare un'intera vita.

Eccola la convinzione del “chi vuole può”: una trappola, una gabbia dorata in cui i giovani si sentono costretti a realizzare sogni e aspirazioni che forse sono solo lo specchio di una società che ci vuole belli, alti, magri e laureati. 

La società pone aspettative elevate, spesso irrealistiche, sui ragazzi, senza considerare le loro fragilità, le loro paure e le loro battaglie interiori. 

Il messaggio predominante è che chiunque, con la giusta determinazione, può raggiungere i propri obiettivi ignorando spesso un aspetto fondamentale della vita di chiunque: il fallimento. 

Una mancanza di educazione al fallimento che crea un corto circuito pericoloso, dove il successo è l'unico risultato accettabile e l’insuccesso diventa un tabù, un marchio di infamia. È essenziale, quindi, iniziare a insegnare ai giovani che il fallimento non è solo una possibilità, ma una componente inevitabile e fondamentale del percorso di crescita.

Imparare a fallire significa anche comprendere che il valore di una persona non è definito esclusivamente dai suoi successi. 

È fondamentale dirci che la nostra identità non è legata a una laurea, a un lavoro prestigioso o a un traguardo specifico, ma è piuttosto un mosaico di esperienze, comprese quelle negative. Le cicatrici del fallimento possono diventare dei segni che ci ricordano la strada.

A fianco di ogni sogno, di ogni ambizione deve esserci anche la resilienza e la capacità di accettare la vita con tutte le sue imperfezioni e incertezze. 

Solo allora il messaggio del “chi vuole può” potrà essere davvero positivo e liberatorio, trasformandosi da una gabbia dorata a un invito a vivere con autenticità e coraggio. 

Puoi, solo se accetti le milioni di volte in cui non ce la fai, in cui sbagli, in cui torni indietro.

L’idea che la volontà possa risolvere ogni problema è un’illusione; non tiene conto delle situazioni personali, delle nostre mille fragilità, dei ripensamenti e dei fallimenti.

La matrice dei suicidi giovanili è complessa e multifattoriale, e di certo non ho i titoli per definirne i confini, ma so come ci si sente quando non si è “il migliore” o “il più forte”.

So quanto il mondo possa contribuire a farti sentire un fallito, un inetto, uno stupido solo perché non eri cosi come ti volevano gli altri.

 La morte di Nunzio ci interpella, ci bussa alla coscienza. 

“Chi vuole può” è una bugia che sta bene solo in quegli stupidi video motivazionali su TikTok. 

Dobbiamo incoraggiare i giovani a perseguire i loro sogni, sì, ma con tenacia e realismo, riconoscendo che può essere necessario fermarsi, tornare indietro, chiedere aiuto e, soprattutto, imparare a fallire.

Accogliere i propri limiti e poi tentare eventualmente di superarli. 

Accettarsi come si è, con tutti i nostri talenti e con tutte le nostre mille incapacità. 

Nunzio, scusaci se non abbiamo capito.

Quanto vorrei dirti che non basta una laurea per essere felici.

Scusateci, ragazzi, se vi abbiamo detto che “chi vuole può” ma poi non vi abbiamo spiegato come si fa a fallire. 

E a riprovare. A fallire ancora. A fermarsi.

Scusateci e parlate ai vostri amici. 

Parlate di Nunzio, di quel peso che certi pseudo-fallimenti possono generare, affinché nessuno si senta mai più costretto a dire “scusatemi” in un addio.

Giovanni Salzano
Author: Giovanni Salzano
Esperto di social media management, cura la rubrica di opinione Società.

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