Non sono un robot (I’m not a robot)
Nella società liquida del domani, che promette di diventare ancora più fluida, plasmabile e vacua, ai limiti dell’inconsistenza, e dove gli unici punti fermi sono affidati alla tecnologia, all’informatica e all’innovazione digitale, resteremo umani o finiremo per diventare anche noi numeri di un algoritmo?
Il tempo dell’innovazione viaggia a velocità supersonica, ciò che ieri sembrava impossibile e irreale oggi acquista spessore, siamo a un bivio dove la diga che ha separato finora uomo e macchina sembra perdere forza…
Nella società liquida l’identità sfuma, a partire da quella sessuale, e noi prendiamo sempre più la forma di un avatar, pronti a sfidare il tempo e a scavalcare l’immaginaria linea di confine tra virtuale e reale.
Viviamo a metà strada, in quello che viene ancora definito reale, fatto di corporeità, di lavoro in ufficio, di incontri con amici e colleghi in un bar, di spostamenti in auto, e poi nell’altro, l’universo inquietante, dove c’è tutta la vita di prima spostata in una dimensione virtuale, con lo smartworking, le riunioni su zoom seduti sul divano di casa con gente che sta dall’altra parte del mondo, le visite nei musei dal soggiorno, gli incontri e scontri nelle piazze dei social, dove chiacchieri, dibatti, litighi e ti innamori senza spostarti di un centimetro dalla “comfort zone” di casa tua.
È sui social, da Facebook, a Tik Tok a Instagram che si consuma il desiderio di socialità di molte persone.
Cosa accadrebbe quindi se un giorno, il gruppo di Meta, che ha il monopolio di Facebook, un social trasversale, usato soprattutto nella fascia degli ultra quarantenni, decidesse per questione di tutela della privacy di oscurare l’identità di chi mette i likes ai post?
Con questa precisa scelta si tenderebbe a privilegiare il numero del consenso più che l’identità delle persone.
Si potrebbe agevolmente sapere se un post o un’ opinione hanno un certo numero di likes, ma non si potrebbe più vedere chi c’è dietro quel like, cioè chi si mostra realmente interessato a ciò che l’utente scrive.
Per la tutela della privacy non si potrebbe più vedere quell’amico che magari nella vita reale si frequenta poco, ma che magari mette un abbraccio a un post, non si potrebbe vedere chi partecipa con una reazione a una riflessione. Insomma sarebbe l’addio definitivo a quel vecchio modo di sentirci vicini che fa parte della socialità reale e che rende il social oggi un luogo di incontro e di scambio di idee, e un modo di fare rete.
Diventerebbe insomma più importante il quantitativo del consenso che la relazione in sé e noi finiremmo omologati in un numero, inglobati nel gruppo dei follower che “seguono”, senza volto, senza corpo, poco più che avatar a cui viene sottratto anche il nome, il distinguo identitario.
Forse è tempo di trovare altri modi di fare rete e incontrarsi.
Modi nuovi, più creativi per mantenere viva l’esigenza umana della socialità.
Non siamo manichini. Anche se dalle vetrine dei negozi più trendy delle città metropolitane svettano inquietanti forme extraterrestri, simili a robot che indossano Prada o Gucci o Max Mara.
Scriviamo, lasciamo commenti e tracce di noi, qualcosa di più di una emoticon, una traccia più complessa di quel linguaggio della brevità che impera nella società della tecnologia.
Manteniamo le relazioni umane, per non finire nel brodo anonimo della società delle macchine, performanti ed efficaci, dove il problema e la soluzione sono sintetizzati dal numero, dove l’identità è affidata a un QR code, e dove l’esistenza è fluida e senza appigli, e noi naufraghiamo in un mare di solitudine.